Ci si domanda di questi tempi chi paga la transizione ecologica e se i costi sociali non siano troppo elevati. Bisognerebbe forse porre la questione in modo diverso. La transizione ecologica ha sicuramente dei costi che vanno però confrontati con quelli del ritardo nella transizione. Per capire che, quasi sempre, i secondi sono più alti dei primi. Facciamo qualche esempio. I costi dell’inquinamento dell’aria producono in Italia secondo l’Organizzazione mondiale della sanità più di 200 morti al giorno per gli effetti delle polveri sottili su malattie polmonari e cardiovascolari. Come messo in evidenza da un lavoro di ricerca curato da chi scrive in collaborazione con diverse università occidentali, e da molti altri pubblicati negli ultimi anni, l’esposizione di lungo periodo alle polveri sottili ha aggravato le conseguenze del Covid soprattutto nella pianura padana. I rimedi ci sarebbero perché circa la metà delle polveri deriva dal riscaldamento domestico.
Sostituire le caldaie a gas con le pompe di calore risolverebbe gran parte del problema riducendo tra l’altro significativamente le emissioni di CO2 che contribuiscono al riscaldamento globale. Quanto ci costa in questo ambito il ritardo della transizione ecologica? L’Unione Europea punta allo stop delle caldaie a gas entro il 2029. Abbiamo tempo per adeguarci ma faremmo bene a farlo il più rapidamente possibile se ci teniamo a benessere e sviluppo umano integrale e non ragioniamo a compartimenti stagni. Il riscaldamento globale intanto rischia di produrre siccità sempre più gravi (in questo momento nel nostro Paese è il Nord-ovest che sta pagando il costo maggiore) che significano perdite ingenti nel settore agricolo (dalla produzione di riso all’acquacultura dei molluschi molto importante nel Nord dell’Adriatico).
Dobbiamo usare gli investimenti previsti nel Pnrr per uscire dall’ultimo posto in classifica in Europa come perdite negli acquedotti (circa il 40%) e investire negli invasi che aumentano la percentuale di acqua piovana (le precipitazioni sono più rare e più concentrate) che diventa riserva idrica (da noi 11% in Spagna 40%) mettendo in rete gli invasi ed evitando che surplus in alcune zone (oggi nel Sud) debbano essere dispersi a mare e non utilizzati per colmare i deficit in altre zone del Paese. Quanto costerà il ritardo negli interventi per la nostra economia? In altri ambiti della transizione non sono richiesti sforzi sovrumani. Il settore pubblico deve semplicemente diventare levatore delle energie della società civile e del mercato guidando la transizione. Per questo gli ultimi decreti sull’agrivoltaico, sulle comunità energetiche e sulla semplificazione delle autorizzazioni per l’installazione di nuova capacità da rinnovabili sono molto importanti. Produrre energia da fonti rinnovabili ormai conviene, ma il processo deve essere guidato per evitare che entri in conflitto con le esigenze pur importanti del territorio e del paesaggio.
“Et et” è meglio di “aut aut” perché produzione agricola e produzione di energia si possono aiutare l’un l’altra, ad esempio con pannelli a due metri dal terreno che riducono l’evaporazione dell’acqua e le esigenze di irrigazione migliorando l’efficienza della produzione agricola (proprio come nella tipologia di investimento incentivata nella recentissima bozza di decreto sull’agrivoltaico che il governo ha inviato a Bruxelles) invece di pannelli a terra su terreni coltivabili. Il fronte della semplificazione delle procedure di approvazione dei nuovi progetti resta quello fondamentale in un Paese nel quale esistono circa 300GW di progetti per le rinnovabili sul tavolo che aspettano di essere autorizzati (molto più di quanto necessario per centrare gli obiettivi del 2035).
Il decreto appena uscito in materia offre alcune sponde importanti riducendo i tempi per l’autorizzazione paesaggistica a 45 giorni in alcune circostanze rilevanti ed eliminando le autorizzazioni per installazioni in zone industriali, discariche o cave non più utilizzate dove le nuove installazioni sono considerate manutenzione ordinaria.
Nel settore della mobilità il problema non sono i regolamenti comunitari, e prima si capirà che è inutile difendere il motore endotermico, che ha già perso la partita, meglio sarà. Fondamentale invece è favorire la transizione occupazionale degli addetti nella componentistica del motore a scoppio verso il settore dell’auto green (e su questo la strategia del Pnrr per le politiche attive sul lavoro può aiutare significativamente alimentando il Fondo nuove competenze e promuovendo inserimento della formazione obbligatoria per i lavoratori nella nuova contrattazione sindacale).
L’economia civile può essere ancora una volta il paradigma di riferimento per una strategia per la transizione ecologica integrale che tenga assieme soluzioni per la sfida del riscaldamento globale, sostenibilità sociale e compatibilità con le esigenze di territorio e paesaggio. Il ruolo del settore pubblico e della politica è quello di creare le condizioni per una generatività sostenibile dando campo alle energie della società ma mettendo alcuni paletti importanti. I dati che arrivano dai satelliti dell’Agenzia Spaziale Europea e che misurano il cambiamento climatico sono sempre più preoccupanti circa il nostro futuro di fronte al riscaldamento globale. Il progresso scientifico in materia ci offre tutte le opportunità per evitare nostalgie di retroguardia e per essere all’altezza della sfida promuovendo sostenibilità ambientale e sociale.
Ma dobbiamo avere la capacità di osservare il problema simultaneamente nelle diverse dimensioni, non lamentarci un giorno del disastro climatico chiedendo misure per correre ai ripari e il giorno dopo dei costi della transizione ecologica ignorando i costi del cambiamento climatico.
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/i-costi-che-pi-vanno-calcolati