Fino una trentina di anni fa, il tempo di vita si intendeva diviso più generalmente nel tempo “occupato”, costituito da ogni tipo di occupazione, appunto, che a seconda delle età e delle condizioni di vita, poteva essere lo studio, la cura della casa e dei figli, la professione di qualunque tipo, e nel tempo “libero”, costituito invece dalla vacanza e caratterizzato dalla libertà di passarlo come meglio si riteneva. Oggi, invece, si preferisce usare una scansione più specifica, che comprende il tempo lavorativo, il tempo familiare e il tempo per sé. In effetti, alla vecchia concezione di “tempo libero” è possibile sostituire quella di “tempo per sé”, come quel particolare spazio di tempo in cui si ritiene di poter scegliere indisturbati e senza vincoli cosa fare e come farlo.
Tuttavia, quello che mi preme sottolineare è che, sicuramente fino al 2020, i tempi del lavoro, della famiglia e per sé erano considerati ben separati e distinti. Tanto è vero che da sempre e ancora fino a oggi, dal punto di vista del Legislatore e della costruzione di politiche pubbliche per la famiglia, si parla di conciliazione lavoro-famiglia, sottolineando come in questo caso i due tempi, quelli del lavoro e quello della famiglia, debbano essere considerati sostanzialmente differenti. Ed è senz’altro vero in termini pratici e di organizzazione.
D’altro canto, in ambito di riflessione scientifica e accademica e anche nella riflessione sulla qualità della vita globale e individuale prende sempre più piede il concetto, partito in ambiente anglosassone di work-life balance o, equilibrio lavoro-vita. Rispetto alla conciliazione dei tempi del lavoro e della famiglia, il work-life balance possiede da un lato un’accezione più ampia, quando in qualche modo recupera il senso del tempo “occupato” di cui si diceva all’inizio, ma dall’altro restringe i soggetti interessati alla conciliazione dei tempi, tramite accordi che sono relazionali, al singolo individuo che per primo deve impegnarsi a fare in modo che esista un equilibrio fra i tempi dedicati al lavoro e quelli alla vita in tutti i suoi aspetti – relazioni affettive e amicali, paternità, maternità, svago, interessi altri, etc. –
Considerando però la distribuzione dei tempi individuali secondo categorie ben definite e ritenute, tanto nel concetto, quanto nella prassi, separate, si rischia di estromettere dalla vita ritenuta soddisfacente, piena, corrispondente a come la vorremmo, il tempo nel quale si è maggiormente frustrati e meno soddisfatti. La famiglia, il lavoro, l’attenzione per sé … qual è il “proprio” tempo, quello nel quale si può dire di essere se stessi, se stesse? Quello il cui scorrere è pieno di senso? È tutto il tempo? È tutta la propria traiettoria globale di vita? Oppure è solo parte di esso e quale specifica parte?
La pandemia, a questo tipo di considerazioni, ha dato una svolta repentina e (a mio avviso) rivoluzionaria, perché si è stati costretti a vivere un tempo unico, confuso, sovrapposto, (soprattutto nei lockdown), nel quale probabilmente è stato molto faticoso inserirsi, ragionare, e percepire il senso di un’esperienza di vita globale, multidimensionale e multifattoriale. Si è forse fatta anche molta fatica ad avvertire l’occasione – e non solo la fatica – che in quel momento ci era data: quella di recuperare il valore di un tempo di vita integrato, che fosse tutto consapevolmente vissuto.
Ciascuna e ciascuno di noi è stato messo di fronte – proprio perché durante la pandemia abbiamo avuto una più forte comprensione della finitezza del tempo vitale – a una delle domande che più caratterizzano la dimensione etica e significante dell’esistere e che la fretta e l’incapacità di “fermarsi” dei tempi pre-pandemici non hanno consentito di mettere a fuoco: “cosa posso farne del tempo che mi è stato dato di vivere qui su questo pianeta?”
A questa domanda si è risposto generalmente con alcune prese di posizione relativamente al tempo speso soprattutto al lavoro. Per molti e molte di noi, la pandemia ha costituito una cesura tra un prima e un dopo che si sono voluti differenti: negli Stati Uniti, in India e anche in Italia, ma anche altrove, si sono registrati aumenti significativi nei numeri delle dimissioni volontarie, tanto da chiamare questo fenomeno con il nome di Great Resignation, Grandi dimissioni, ad indicare la differenza fra il dato pre-pandemico e quello post-pandemico.
Due sono i fattori che la pandemia ha lasciato emergere e che hanno fatto da leva per destabilizzare quanto prima era cosa stabile nel mondo del lavoro: lo smart working e la revisione della leadership.
Alcune conseguenze della pandemia sul mondo del lavoro: lo smart working e la gestione della leadership
Uno dei “tipi” di tempo che più hanno subito cambiamenti a causa della pandemia è stato quello del lavoro: lo scorrere delle tappe della professione, il modo di esercitarla e l’atteggiamento di lavoratori e delle lavoratrici di fronte agli impegni professionali, sono stati stravolti dal COVID-19 nella loro percezione e nel loro senso.
Il più evidente impatto del Covid sul mondo del lavoro è stato lo smart working, che però, soprattutto nelle prime fasi della pandemia è stato più home working, cioè il trasferimento del lavoro di ufficio alla propria abitazione, usando per lavorare con i colleghi i mezzi di comunicazione digitale. La differenza fra le due modalità è però sostanziale; mentre lo smart working è previsto dalla legge, quindi è normato e gode di specifiche tutele, per cui usufruisce di meccanismi che ne impediscono lo sfruttamento (come l’esercizio del diritto alla disconnessione), nell’home working molti dipendenti hanno lavorato ben oltre le ore d’ufficio, senza veder riconosciuti gli straordinari dalle aziende.
Durante la pandemia alcune aziende, soprattutto quelle predisposte ad usufruire al massimo dei servizi digitali per produrre, hanno fatturato anche il 30% in più dei tempi pre-covid. Altre aziende (soprattutto private) in grado di investire, hanno dismesso uffici, dislocato stabilmente e a rotazione (attualmente è spesso previsto un ritorno settimanale o bisettimanale in azienda come momento di confronto fra colleghi) i lavoratori e le lavoratrici nelle loro case in un vero smart working, creando applicativi per la timbratura online e il riconoscimento degli straordinari, aumentando così produttività e risparmio. Alcune aziende di queste, però, non hanno ridistribuito gli utili prodotti con lo smart working, creando scontento nei lavoratori e nelle lavoratrici che si sono sentiti sfruttati e sfruttate – e a ragione – in una dinamica professionale ben nota, che non riconosce il valore della persona che lavora che deve venire prima di quello del profitto aziendale.
In ogni caso, lo smart working ha restituito ai lavoratori e alle lavoratrici un potere sul proprio tempo che non avevano prima del Covid. Tanto è vero che tra loro molti manifestano, senza autocensurarla, la propria intenzione di licenziarsi, semmai dovessero rientrare in presenza con le stesse modalità del pre-covid. In questi 3 anni uomini e donne di ogni età e condizione sociale e professionale hanno scoperto la possibilità di passare del tempo di qualità con le proprie compagne o i propri compagni, con i figli e le figlie, senza essere fagocitati dal persecutorio bisogno di tempo che si aveva prima. E non solo. Le famiglie hanno risparmiato: sugli spostamenti, sulla spesa, sulle attività, modificando abitudini e priorità, con stipendi a un maggiore potere d’acquisto (per quanto fittizio, perché in realtà nei dati non è vero), ma di fatto concreto, in quanto sono state cancellate (almeno parzialmente) alcune voci di spesa fissa, prima inevitabili.
Una delle conseguenze più importanti del recupero del tempo per sé nel post-covid per tanti dipendenti – alcuni dei quali hanno deciso di licenziarsi (2,2 milioni di lavoratori e lavoratrici in Italia secondo gli ultimi dati ISTAT) sotto la pressione di situazioni che non volevano più, come già accennato – è la rinnovata importanza di una gestione della leadership che corrisponda alla necessità di maggiore flessibilità nei tempi e negli spazi e un maggiore riconoscimento, anche economico, del proprio impegno, che le persone cercano oggi.
La leadership aziendale quindi, non si è più potuta esprime solo come una forma di controllo (in qualche caso anche virtuosa) sul lavoratore e la lavoratrice se e solo se presenti in ufficio. L’immagine del capo, che per essere convinto del lavoro e della dedizione dei propri dipendenti deve soprattutto “vederli”, durante la pandemia ha esposto tutti i suoi lati problematici.
Si è quindi dovuto provvedere nei tempi stretti della riorganizzazione dei lockdown, a impostare una leadership “di necessità”, fondata sulla possibilità che il datore o la datrice di lavoro potesse e dovesse avere fiducia nei propri dipendenti. Tanto è vero, che il ritorno in presenza tout court, senza prevedere una modalità mista (laddove possibile ovviamente), è stato percepito in parte come una mancanza di fiducia, in parte come una sorta di umiliazione e in parte come l’ennesima prova che chi lavora fa parte di un ingranaggio che è molto più importante di chi lo fa funzionare. L’effetto di burnout che ne proviene è scientificamente accertato: uomini e donne perdono di motivazione, il senso del proprio “fare” si consuma nella ripetitività, dove non c’è partecipazione, non c’è flessibilità, non c’è rispetto per le vite di tutti, né consapevolezza delle differenze e delle potenzialità. La perdita di significato del proprio agire fa ammalare.
Il Covid ha reso palese la necessità di impostare la leadership professionale in modo che sia meno asimmetrica, meno “devo vederti qui davanti a me ora” e più collaborativa, condivisa, collegiale. Una “leadership gentile” (Straniero Sergio, Stratta 2021) che metta al centro il rispetto e la considerazione per la persona, le sue potenzialità, le sue dimensioni relazionali principali (con Dio, con gli altri, con se stesso, con l’ambiente) e lasci che sia possibile coltivarle.
Il cambiamento in questa direzione è appena iniziato. Le aziende stanno prendendo sul serio le indicazioni che provengono da un ripensamento del trattamento riservato alle Risorse Umane, che impatta su molteplici fattori al centro della riflessione attuale, come la sostenibilità ambientale ad esempio. La domanda che chiede risposta è se questo sarà un cambiamento diffuso, che saprà mettere radici, oppure uno dei tentativi possibili nell’attesa di tornare alla normalità pre-pandemica, che però nessuno vuole più.
In definitiva, il Covid-19 è stata un’immane tragedia, ma ha consentito al mondo di fermarsi e ad ogni uomo e donna di pensare alla propria vita, a se stessi, alle proprie relazioni, alle priorità tante volte passate in secondo piano. Molti non vogliono più tornare ad una normalità spersonalizzante e senza significato. Il mondo del lavoro, ora, in ogni sua parte – anche nell’ambiente ecclesiale – deve attrezzarsi per rendere virtuosi e stabili i cambiamenti necessari per migliorare la qualità della vita di tutti e tutte.
Emilia Palladino, docente straordinaria di etica sociale, facoltà di Scienze Sociali, Pontificia Università Gregoriana, Roma; autrice con Monica Ruffa di Il lavoro su misura. I «coworking spaces» e la conciliazione lavoro-famiglia, Meltemi.