L’autonomia differenziata di per sé non è uno sbrego costituzionale. La previdero gli stessi costituenti per le due isole e le regioni di confine con consistenti minoranze linguistiche. Una riforma del 2001 ha previsto la possibilità di estenderla anche alle regioni ordinarie previa intesa con lo Stato. Ma – dice l’art. 116 – “nel rispetto dei princìpi di cui all’art. 119”. Cioè l’istituzione di un “fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante” e la destinazione di “risorse aggiuntive” per interventi speciali.
E’ evidente, infatti, che se le Regioni non sono allineate sul nastro di partenza, quanto a spesa pro capite e a numero di prestazioni per diritti sociali, il rafforzamento dell’autonomia di alcune di esse non farebbe che aumentare il divario già esistente. Vistoso il caso della sanità quanto al raggiungimento dei livelli essenziali di assistenza: tutte le regioni settentrionali (più le Marche e l’Umbria, centrali) stanno nella parte alta della classifica degli ultimi dieci anni, quelle centromeridionali nella parte bassa (tutte in piano di rientro, Calabria e Molise commissariate, la Puglia al sest’ultimo posto, mobilità passiva interregionale verso il nord con saldo negativo di 14 miliardi di euro).
E così anche per i servizi sociali (assistenza a minori, disabili, anziani ecc.): la spesa media pro capite in Italia è di 124 euro ma nel nordest arriva a 177 mentre al sud scende a 58, con picchi di 73 in Puglia e di 22 in Calabria. Quanto alle province: a Bologna risulta di 246 euro mentre a Vibo Valentia di 6 euro. Ne risente il numero di prestazioni erogate: per cento aventi diritto sono solo 6 a Napoli e invece 30 a Piacenza.
Non è evidentemente cosa buona e giusta metter mano ad autonomie differenziate prima della perequazione delle risorse finanziarie delle Regioni. Infatti, “il regionalismo differenziato non potrà mai ridurre le diseguaglianze, perché renderà le Regioni del Centro-Sud – che avranno sempre meno risorse per riqualificare i loro servizi – “clienti” dei servizi prodotti dalle Regioni del Nord” (Report Gimbe n. 1/23).
Ciò vale non solo per la sanità ma per tutte le materie. Non a caso i costituenti avevano previsto contributi speciali “particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole”. Ma la norma fu cancellata proprio dalla riforma del 2001, anche se poi reintrodotta l’anno scorso, con un’altra modifica costituzionale, a favore delle Isole ma, per disattenzione generale, non pure del Mezzogiorno. Tuttavia, per evitare una sterile contrapposizione nord-sud va rilevato che ogni Regione estranea all’intesa, nello stesso Nord, rischia di essere danneggiata e comunque va tutelato l’interesse nazionale.
Queste clausole di salvaguardia erano presenti nella Costituzione prima della riforma del 2001, che invece li ha cancellate sostituendole con la tutela della “unità giuridica ed economica” della nazione (art. 120). Ma come tutelarla se, al contrario, si incrementano le autonomie che già ci sono (ben ventitre materie, di cui allo Stato è riservata la determinazione dei soli “princìpi fondamentali”)? Il governo intende cominciare dallo spezzettamento prima di tutelare l’intero.
Intendiamoci: non è una novità. Sembra incredibile ma nel 2018 il governo Gentiloni firmò tre pre-intese con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna prescindendo non solo dalla perequazione ma addirittura dalla determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”, previsti dalla Costituzione (art. 120 e 117 lett. m). Questi LEP non sono privi di ambiguità, è vero.
Prendiamo la scuola: è essenziale che sia assicurato un tempo-scuola di quattro o cinque ore giornaliero o anche avere il tempo prolungato, la mensa, la palestra? Sta di fatto che nessun governo vi ha posto mano, pur avendoli richiamati la legge sul “federalismo fiscale” (n. 42 del 2009) per quattro settori specifici: salute, istruzione, assistenza e trasporto pubblico locale. Nella legge di bilancio il governo attuale ha stabilito che prima di procedere ad intese bisogna definire i LEP. Ma si tratta di uno specchietto per le allodole, giusto per dire che si è rispettata, a parole, la Costituzione per poi passare alle agognate intese. Infatti, la legge finanziaria, nella quale la riforma è stata scorrettamente inserita, dice espressamente che si dovrà “comunque” operare “nell’ambito degli stanziamenti di bilancio a legislazione vigente”.
Quindi, data questa clausola di invarianza finanziaria, i fabbisogni standard di ogni ambito territoriale (in base alla popolazione, alle infrastrutture, al personale impiegato, all’efficienza dei servizi finora erogati, ecc.) saranno privi di effettività. Del resto, a stabilire i LEP sarà un organo amministrativo ristretto come la “cabina di regia”, formata dai ministri interessati con i presidenti della Conferenza delle Regioni, dell’Anci e dell’Upi e ad emanarli un decreto del presidente del consiglio (DPCM): un atto amministrativo come durante la pandemia quando almeno c’era la giustificazione dell’urgenza assoluta di provvedere.
E il Parlamento, che pure è competente in via esclusiva (art. 117, lett. m, Cost.) su diritti civili e sociali? Tagliato fuori. Un ulteriore disegno di legge governativo, se approvato, lo spoglierebbe della competenza legislativa sui princìpi fondamentali, prevista dalla Costituzione. Gli sarebbero riservati solo: 1) un parere su DPCM preparati dalla Cabina di regia, 2) un atto di indirizzo sugli schemi d’intesa preliminare, 3) una “delibera” sull’intesa definitiva. Un Parlamento ridotto ad un organo amministrativo, cui spetta appunto una “delibera” al posto dell’approvazione con legge prevista dall’art. 116 Cost. Per il resto questo disegno di legge conferma che le Regioni possono chiedere intese su tutte le 23 materie (come ha fatto il Veneto), senza giustificarlo con bisogni specifici del territorio. Anche in materia di sanità – dopo la pessima prova offerta durante la pandemia; anche sull’istruzione – dove non si capisce quali siano i princìpi generali determinati dallo Stato, diversi dai princìpi fondamentali che passerebbero alle Regioni; anche sull’energia – che la crisi attuale dimostra non essere gestibile se non in ambito sovranazionale; e così via.
La Costituzione va dove la portano le maggioranze. Sotto il governo Renzi fu approvata una riforma, poi bocciata con il referendum del 2016, che restringeva al massimo le materie d’intesa (escludendo, in particolare, quelle suindicate), ne subordinava l’attribuzione alla condizione di equilibrio tra entrate ed uscite del bilancio regionale e reintroduceva il limite dell’interesse nazionale. Con il governo attuale si va nel senso diametralmente opposto: deregulation completa.
Manca perfino la clausola di supremazia dell’interesse nazionale. Ed è grave, tanto più perché l’intesa non è revocabile unilateralmente ma solo, a sua volta, con un’altra intesa. E nessuna Regione verosimilmente restituirà il maggior potere conquistato. Di fatto una secessione a pezzetti, dimentica “dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, prescritto dall’art. 2 della Costituzione. Qualcosa per opporci possiamo fare anche noi, firmando un’apposita proposta di legge di iniziativa popolare. Si può farlo anche on line con lo Spid collegandosi al sito
http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it
[già magistrato e docente di diritto costituzionale, socio Cuf, Bari]
Fonte: la Repubblica – Bari del 19.2.2023