Pochi giorni dopo l’entrata in vigore della Costituzione l’Assemblea costituente, il 19 gennaio 1948, approvò la legge 47 sulla stampa che abrogava i limiti, i divieti, i controlli preventivi posti dal regime fascista, ispirata dalla diffidenza più che dalla fiducia. È tuttora in vigore senza modifiche salvo quella del 1981 sulle rettifiche e la recente dichiarazione di illegittimità costituzionale puniva con il carcere la diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato (Corte costituzionale, sentenza 150/2021).
L’articolo 57 del Codice penale, che coinvolge il direttore nella responsabilità penale dei singoli autori, per i reati eventualmente commessi fu modificato negli anni ’50, dopo polemiche durissime – di principio e legate a inchieste sugli interessi di grandi gruppi immobiliari – in uno scenario, che appariva sensibile alla tutela dei grandi interessi industriali e finanziari (spesso editori e finanziatori dei giornali) che alla tutela della libertà di stampa. La responsabilità oggettiva venne sostituita con la culpa in vigilando. Per decenni non venne coltivata la ricerca di un equilibrato aggiornamento normativo, la tutela sia della libertà di stampa e di manifestazione del pensiero, sia dei diritti fondamentali delle persone nonché della reputazione dei singoli, delle imprese e delle istituzioni le quali siano danneggiate da accuse false e da campagne di disinformazione.
La pubblicazione di notizie e atti giudiziari vìola spesso le norme sul segreto investigativo e il divieto di pubblicazione degli atti d’indagine. Tuttavia in genere tali violazioni non sono perseguite, per molteplici ragioni. L’informazione fa il suo dovere pubblicando notizie di interesse pubblico, purché rispettino «i limiti della verità, della continenza e della pertinenza» (così la Cassazione). In tal caso si beneficia della scriminante del diritto di cronaca (rispetto ad attribuzioni oggettivamente diffamatorie, ancorché “vere”); e soprattutto si “scarica” sul provvedimento giudiziario il riscontro del requisito della verità. Il giornalista non deve verificare la verità del fatto attribuito o ipotizzato, ma i presupposti per applicare misure cautelari affermati dal Pubblico ministero o dal Giudice delle indagini preliminari. Senza dimenticare la “presunzione di innocenza” dell’indagato fino a sentenza definitiva, nel rispetto di un principio sancito, da 75 anni, dalla nostra Costituzione.
La direttiva europea del D.Lgs 188/2021 è rivolta non ai giornalisti ma agli Stati ed alle autorità giudiziarie.Da “100 giorni” si parla di intercettazioni senza una indicazione modificativa, aggiuntiva o abrogativa delle norme attuali, disposte da una legge i cui effetti devono essere ancora valutati. Il problema esiste da almeno 25 anni. Come ministro della Giustizia proposi una riforma che naufragò in Parlamento e per molti versi somigliava a quella del mio successore Orlando, modificata prima ancora di entrare in vigore. Ora siamo arrivati alla selezione delle intercettazioni rilevanti, da parte del Pm, e all’istituzione di un archivio riservato sotto la sua responsabilità.
C’era fin da allora l’intento di limitare il ricorso alle intercettazioni ai soli casi di assoluta indispensabilità, quando sia impossibile proseguire con altri mezzi un’indagine già in corso. Prima deve esistere una notizia di reato, con una fattispecie ben delineata e gravi indizi, anche contro ignoti. Sarebbe interessante verificare, su un campione di procedimenti penali quali fossero i reati nella richiesta al Gip; quali quelli contestati dal Pm quando esercita l’azione penale; quali quelli riconosciuti o negati in sentenza. L’assoluta indispensabilità non si concilia con le frequenti richieste di proroga che possono essere l’“anticamera” della cosiddetta “pesca a strascico”. Sono almeno quattro le ragioni che rendono l’argomento incandescente.
Sono in gioco interessi primari dell’ordinamento: libertà personale, riservatezza, sicurezza, diritto di informazione e di cronaca. Decidere quale interesse debba prevalere non è facile. L’indicazione della Costituzione – quando si comprimono i diritti e le libertà fondamentali – sono i criteri di proporzionalità e adeguatezza.
Non sempre è questione di norme, ma di comportamenti. Oltre alla assoluta “indispensabilita” delle intercettazioni, esse non si possono utilizzare in altri procedimenti, salvo deroghe specifiche per legge; ovvero aprire nuovi procedimenti o ricercare indiscriminatamente elementi di prova. Nella prassi, a volte, quei limiti vengono forzati o elusi.
Gli interventi del legislatore sono stati equivoci e contraddittori. La riforma del ministro Orlando non è mai entrata in vigore; è stata modificata dal successore, il ministro Bonafede, tra l’altro con l’estensione delle intercettazioni ai delitti contro la pubblica amministrazione.
L’evoluzione tecnologica ha coinvolto tutti i mezzi di ricerca della prova. Alle intercettazioni “tradizionali” si è aggiunto il trojan: uno strumento invasivo che rischia il contrasto con l’articolo 15 della Costituzione.
I nodi del rapporto fra giornalisti e pubblici ministeri (o polizia giudiziaria) oltrepassano le intercettazioni. Oggi la maggior parte delle intercettazioni pubblicate dai giornali proviene dalle ordinanze di custodia cautelare. In tal caso la continenza e la pertinenza dovrebbero riguardare il Pm che chiede la misura e il Gip che la concede.
L’attività giudiziaria fornisce materiali appetibili per il mondo dell’informazione sotto molti profili: il controllo sociale e sui pubblici poteri; la conoscenza dei comportamenti della criminalità organizzata, rilevante per la sicurezza pubblica.
Nessun o poco rischio giudiziario, probabilmente. Ma molti rischi su altri piani. L’incapacità della politica di affrontare e risolvere questioni sociali e offensive criminali ha determinato la sempre più ingombrante – anche generosa e pagata a caro prezzo dai migliori magistrati – supplenza giudiziaria (lotta al terrorismo, alla mafia, alla corruzione); salvo poi lamentarsene o illudersi di rimediare con le continue “trattative” e contiguità tra partiti e correnti associative, come dimostrano vicende meno recenti e anche attuali del Csm per l’elezione dei suoi componenti. Buona parte dei procedimenti, specialmente per reati contro la pubblica amministrazione sono originati da esposti degli avversari politici, per denunciare abusi o per proseguire nelle aule giudiziarie le battaglie perdute in sede politica.
I guasti sono pesanti, il disorientamento nell’opinione pubblica è crescente, la credibilità dell’informazione sempre più declinante. Autorevoli ex direttori e cronisti di punta fanno oggi ammenda per il passato forcaiolo dei giornali soprattutto al tempo di tangentopoli. Nessuna ammissione sulle responsabilità attuali; forse sono inesistenti?
Un altro responsabile di questa deriva è la lunghezza dei processi. Come si fa a sostenere ragionevolmente che si dovrebbe aspettare il processo per conoscere le notizie?
Quale sarebbe oggi la situazione, non solo per l’informazione ma per la nostra libertà, senza l’articolo 21 della Costituzione: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»? La Corte costituzionale ha ancorato questo diritto alla libertà di stampa, definendola fin dal 1969 «pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza 84). Disse nel 1971 che il diritto all’informazione è il più alto fra i diritti fondamentali e (1985) lo definì un cardine della democrazia. L’informazione è la linfa della politica e della democrazia liberale. Senza libertà non c’è democrazia; se l’informazione è limitata, ostacolata, la democrazia è carente.
Il diritto alla libertà di comunicazione si fonda su due pilastri. Il diritto ad informare e ad essere informati; cioè a comunicare con tutti (articolo 21). Il diritto a comunicare liberamente e segretamente con una persona sola (articolo 15). Due forme alternative di esercizio della libertà, a volte complementari: si pensi alla richiesta di riservatezza sulla fonte dell’informazione. Ma esiste anche una terza forma di libertà: non comunicare tutto; il diritto alla privacy, al riserbo, in alternativa al diritto di comunicare a tutti ciò che penso.
Tre diritti di volta in volta scelti e azionati dalla libertà di ciascuno. Senonché l’informazione è anche strumentale ad altri obiettivi e diritti costituzionali. È essenziale per la pari dignità sociale; attraverso l’informazione si può rispettarla e promuoverla ma anche azzerarla. La persona nei confronti della quale sia stato esercitato il diritto di informare può soffrire un pregiudizio all’onore, al decoro, alla propria identità, talvolta ingiusto, sempre difficilmente riparabile. È fondamentale tutelare anche il diritto dei cittadini ad essere informati correttamente, in modo completo.
La libertà di informazione è sovraordinata rispetto ad altre libertà: pensare, ragionare, conoscere ed esporre la propria conoscenza. È strumentale all’esercizio di altre libertà: politica, sindacale, religiosa, professionale. Infine è architrave del sistema pluralista e democratico, perché l’opinione pubblica svolge un ruolo fondamentale nel controllo dell’esercizio dei poteri e nel dare concretezza alla sovranità popolare. Nel 1993 lo ha riconosciuto anche la Corte costituzionale.
Dal diritto all’informazione discende il riconoscimento del pluralismo delle fonti; un’informazione con una fonte sola o fonti controllate dall’alto non sarebbe tale. Il pluralismo è la condizione (ma non la garanzia) per l’obiettività, l’imparzialità e la completezza dell’informazione. Il tema del pluralismo aprirebbe molti altri percorsi, sia quelli compiuti negli scorsi decenni sull’emittenza radiotelevisiva, sia quelli attuali e del prossimo futuro, nella rete e nel cyberspazio: grandi opportunità e terribili incertezze, pericoli, manipolazioni e abusi (dei gestori come degli utilizzatori) nel rispetto delle persone e nella tutela dei diritti civili, politici e sociali. Non rimpiangeremo mai abbastanza la saggezza di Stefano Rodotà. Partiva dall’Habeas corpus, che abbiamo ereditato dalla Magna Charta, per dire che il diritto alla disponibilità del mio corpo vale anche per il corpo elettronico: l’Habeas data.
L’Ordine dei giornalisti – di cui quest’anno si celebra il 60° anniversario – ha favorito largamente, non senza contrasti anche di principio e contrapposizioni interne alla categoria, la libertà di stampa, la dignità della professione, il diritto dei cittadini all’informazione. Un prezioso e indispensabile ruolo istituzionale, a volte competitivo, sempre complementare, solo in qualche occasione contrapposto a quello proprio del sindacato e delle associazioni.
https://www.ilsole24ore.com/art/la-linfa-politica-e-democrazia-liberale-e-l-informazione-AEIFl1gC