Nei primi decenni della Repubblica si recava alle urne più del 90 per cento degli aventi diritto al voto; sono ora scesi a poco più del 60 per cento. Gli iscritti ai partiti erano più dell’8 per cento della popolazione; sono ora meno del 2 per cento. L’elettorato era relativamente stabile e i suoi movimenti lenti; ora è fluido e volatile, e prende le decisioni di voto all’ultimo momento, se va al seggio elettorale. I partiti erano associazioni ramificate nella società, complesse organizzazioni, una vita attiva; sono ora meri comitati elettorali, prigionieri della personalizzazione del potere, e nella maggior parte dei casi rifiutano persino di chiamarsi partiti.
La lotta politica si svolgeva intorno a grandi problemi, come la nazionalizzazione elettrica, la riforma agraria, la scuola media dell’obbligo, il servizio sanitario nazionale, la legge urbanistica; ora è distratta dal quotidiano, a-programmatica, prigioniera della «single-issue politics», la politica monotematica. Le basi cognitive della politica erano cercate e offerte da inchieste parlamentari, dall’ausilio di centri di ricerche e di intellettuali, oppure provenivano dalle radici dei partiti; alla carenza di tutto ciò si supplisce ora viaggiando per l’Italia in minivan. La comunicazione era fatta con note stampa, lunghe e spesso noiose; ora è raccolta per strada o affidata a estemporanei «tweet».
L’offerta di candidature abbondava, perché saliva dall’interno dei partiti, che erano grandi educatori collettivi alla politica; ora si ricorre alla «società civile», si fanno primarie aperte, persino un governo che si proclama tutto politico ha scelto per due posizioni chiave due tecnici provenienti dai corpi stessi che debbono governare, e l’aspirante leader di una forza politica vi si è iscritta in vista della elezione.
Le profonde trasformazioni che ho appena delineato, che riguardano i rapporti Stato–società, innescano ulteriori trasformazioni all’interno dello Stato. Qui la funzione legislativa si è trasferita dal Parlamento al governo, mentre quella amministrativa viene sempre più attratta da Camera e Senato. L’attuale esecutivo, che pure ha una ampia maggioranza in Parlamento, ha adottato, in cento giorni, quindici decreti legge (ma molti governi precedenti non sono stati da meno). Questi poi passano in Parlamento per la conversione, e i parlamentari ne triplicano le dimensioni, riempiendoli di provvedimenti amministrativi che assumono la veste di atti con forza di legge.
Questo non è solo il prodotto delle frustrazioni di parlamentari che credevano di assumere la veste di legislatori e se la vedono sottratta dall’esecutivo, ma anche della sfiducia nei confronti della disprezzata burocrazia, della quale «non ci si fida»: di qui l’aspirazione massima del parlamentare, di approvare leggi «autoapplicative», cioè che non abbiano bisogno di quella «inaffidabile» burocrazia per essere eseguite. Ne conseguono un eccesso di norme d’impianto casistico, una autoriduzione della forza del Parlamento, che rinuncia a «fare politica», l’evaporazione della divisione dei poteri.
Queste distorsioni del regolare funzionamento dello Stato non vengono corrette perché sia i parlamentari, sia la burocrazia sono costretti a tacere: i primi non sono prescelti dall’elettorato, ma nominati dai segretari delle forze politiche, che li presentano in collegi «sicuri» di una successiva ratifica elettiva; la seconda è «tenuta sotto schiaffo» dall’infausto sistema delle spoglie.
I due circoli viziosi che ho brevemente descritto non sono di oggi. Cominciano da qualche decennio. Molti segni erano stati individuati (delusione per la politica, partito leggero) da Alessandro Campi nei bei saggi raccolti ora nel volume su Trasformazioni della politica. Indicano un’apatia della società, che non è però disinteresse per la politica: accurate indagini statistiche hanno mostrato che la partecipazione politica passiva è più di otto volte superiore di quella attiva e il fiorire in tutta Italia di scuole di politica sta lì a dimostrare che non si tratta di recessività della domanda politica, quanto di debolezza dell’offerta.
Questo vuol dire che i cittadini sono interessati alla politica, ma non vi si fanno coinvolgere attivamente. Non si tratta di sordità della popolazione, quanto di debolezza delle proposte politiche, di incapacità di attrarre l’elettorato verso l’impegno attivo. Manca capacità aggregativa dei proponenti, ai quali sfuggono i grandi problemi sociali, che possono essere colti più con un attento studio delle statistiche dell’Istat che facendosi riprendere dalle televisioni in conversazione con l’«uomo della strada» («uno vale uno» ha lasciato il segno). Insomma, quelli che chiamiamo «rappresentanti» non riescono a rappresentare il Paese, che se ne allontana, per colpa della inconsistenza dell’offerta politica di forze prigioniere del solo quotidiano e dell’incapacità dei futuri governanti, pronti solo a fare proposte «mordi e fuggi», invece di elaborare un programma con «obiettivi di legislatura». A un Paese ansioso del futuro, la politica sa solo indicare che fare oggi.
Se questo è «l’esprit général de la nation», lo spirito generale della nazione, per usare una espressione di Montesquieu, se si registra un distacco della società dallo Stato e dalla sua classe dirigente, il cui tasso di successo è debole e variabile, sia per scarsa capacità di cogliere i movimenti di fondo della società e di aggregarne interessi, sia perché — come diceva Tacito per Galba — «capax imperii, nisi imperasset» (capace di governare, se solo non avesse governato davvero) se i ruoli tra i poteri dello Stato si stanno rovesciando, dobbiamo disperare?
Innanzitutto, meriti e demeriti della politica vanno misurati con le difficoltà dei tempi, che sono grandissime. In secondo luogo, bisogna esser fiduciosi nella capacità della democrazia di autocorreggersi: la maggiore forza della democrazia sta proprio nel fatto che, sottoponendo i governanti a periodiche autorizzazioni popolari e al gioco dei poteri contrapposti, è «a machine that runs of itself», una macchina che funziona da sola, come scrisse nel 1888 uno dei critici della fede nella perfezione meccanica della Costituzione americana.
Fatti questi due «caveat», di che cosa c’è bisogno per invertire la rotta? Il primo elemento indispensabile lo indicò un politico di lungo corso come Vittorio Emanuele Orlando a un grande filosofo come Benedetto Croce, nel 1940: «Ricordati, Croce, che siamo divisi da un solo minuto, ma da un minuto essenziale. Tu sei un filosofo ed uno storico: per te è sufficiente capire un minuto “dopo”. Un uomo di Stato è costretto a capire almeno un minuto “prima”».
Il secondo riguarda la capacità di orchestrazione della politica. Sì, proprio orchestrazione, nel senso di saper combinare tra di loro le varie voci per ottenere gli effetti timbrici desiderati, assicurando il concorso di tutti, quando necessario anche il loro silenzio.
Il terzo riguarda il contributo che può dare l’opinione pubblica per riempire la politica di contenuti. Ad esempio, la capacità dei media di relegare allo spazio che si meritano le esternazioni quotidiane dei politici, portando in primo piano notizie di eventi, nonché situazioni che, per il solo fatto di essere lì, spesso incancreniti, da tempo, non fanno più notizia, ma sono tuttavia essenziali per la vita di ogni giorno delle persone.
Da ultimo avremmo bisogno di qualcuno che si mettesse a riscrivere, per il futuro, quel «libro dei sogni», come fu chiamato il primo ed unico piano economico nazionale, ma ricco di tutti i «sogni» che la classe dirigente italiana ha poi realizzato nel mezzo secolo successivo.
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