Il sogno di un mondo senza plastica sarà mai realtà? Lo scorso marzo, il Comitato Onu per l’ambiente ha adottato una risoluzione che si propone di avviare un percorso dal 2024 per archiviare definitivamente il materiale, mediante un Trattato giuridicamente vincolante. La prima sessione per disegnarlo nero su bianco, avvenuta nell’uruguayana Punta del Este dal 28 novembre al 2 dicembre, ha, però, certificato la spaccatura esistente tra i 160 Paesi aderenti. Gli oltre 2.300 rappresentanti riuniti nell’Intergovernmental negotiating committee (Inc), dunque, si sono rassegnati a prendere tempo nella speranza di ricomporre la frattura prima del prossimo appuntamento, previsto nella primavera 2023.
Se, sulla necessità di mettere fine all’inquinamento da plastica il consenso è univoco, il come riuscirci rappresenta una linea di faglia. Insomma, come sintetizzato efficacemente durante un acceso dibattito a Punta del Este, «abbiamo un gigantesco problema globale e mille idee diverse per risolverlo». La questione è davvero enorme. La plastica, il più popolare dei derivati del petrolio, è, per impiegare le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, combustibile fossile sotto altra forma. Ogni anno, il pianeta è inondato da 460 milioni di tonnellate metriche aggiuntive del materiale. E nel giro di quarant’anni, la produzione triplicherà in base alle stime dell’Ocse. Meno del 9 per cento al momento della quantità dismessa viene riciclata. Il resto finisce negli oceani, al ritmo annuale di 14 milioni di tonnellate metriche. O nelle discariche, dove è sotterrato o, peggio, bruciato. In quest’ultimo caso, la plastica si trasforma in emissioni di CO2, prima causa del cambiamento climatico. Come una ricerca dell’Onu ha dimostrato, nel 2050, i gas immessi nell’aria dalla sua combustione rappresenteranno il 15 per cento del totale che si dovrà produrre per contenere il riscaldamento globale entro la soglia dell’1,5 gradi.
Per cercare di riparare i danni dell’inquinamento da plastica, i governi spendono – come ha calcolato la Fondazione Minderoo – più di cento miliardi l’anno. « Il costo di non agire oramai eccede enormemente l’adozione di provvedimenti stringenti », ha detto la sua principale ricercatrice, Linda Godfrey. « La scienza è chiara: abbiamo necessità di un’azione globale rapida, ambiziosa e lungimirante per ridurre l’inquinamento da plastica», ha affermato Jyoti Mathur-Filipp, segretaria esecutiva dell’Inc. È la politica, però – e non gli scienziati – a dover attuare il passaggio dalla radiografia del problema alla soluzione. E questa implica la sintesi di posizioni, orientamenti, interessi spesso divergenti come dimostra il variegato panorama delle legislazioni nazionali.
L’Ue, ad esempio vieta gli oggetti monouso, la Nuova Zelanda ha eliminato anche le confezioni alimentari di poliestere e i vassoi in Pvc. In altri Stati sono scomparsi sacchetti di plastica. Negli Usa, invece, a livello federale, prevale il laissez-faire. Da qui la proposta di una quarantina di nazioni – tra cui i Paesi membri dell’Ue, la Svizzera, l’Uruguay e il Ghana – di creare un quadro normativo unico che includa limiti alla produzione. Un nodo, quest’ultimo, cruciale. Il riciclo da solo, per gli esperti, scalfisce a malapena la punta dell’icebergplastica. Una vera riduzione implica un approccio integrale con tagli consistenti a fabbricazione e consumo. « Dobbiamo risalire l’intera filiera produttiva per assicurarci che quanti più oggetti possibili siano plastic free », ha spiegato Sheila Aggarwal-Khan, direttore della divisione economica del Programma ambientale Onu (Unep). In questo modo – sostengono le ultime rilevazioni dell’Unep – si potrebbe dare una sforbiciata alle emissioni del 25 per cento, oltre a creare 700mila nuovi impieghi.
Gli altri Paesi, però, non concordano. Un fronte guidato da Stati Uniti e Arabia Saudita punta a creare un meccanismo simile all’accordo di Parigi sul clima. Vuole, cioè, che siano i singoli Stati a decidere gli obiettivi di riduzione della plastica e le azioni per conseguirlo. Un sistema, insomma, ha spiegato Riad, che tenga conto delle “circostanze nazionali” e si concentri sull’eliminazione degli additivi più dannosi – come il bisfenolo A, gli ftalati e i policlorobifenili, associati a disturbi endocrini e riproduttivi – piuttosto che su una proibizione del materiale in quanto tale. Inutile sottolineare che i colossi chimici e petrolchimici propendano per un approccio soft che si limiti a migliorare il sistema di raccolta e riciclaggio dei rifiuti plastici. « Alla fine, ci auguriamo che l’Inc arrivi alla stessa conclusione nostra. L’incremento del riciclaggio offre la miglior soluzione all’inquinamento da plastica » , ha ribadito Matt Seaholm, presidente della Plastics industry association, presente al vertice uruguayano. Nonostante i richiami di esperti e ambientalisti, del resto, il business della plastica continua fiorente.
Perfino molte compagnie che, negli ultimi anni, si sono formalmente impegnate a rinunciare al monouso nella pratica continuano a farvi ricorso. A sostenerlo è uno studio della Fondazione Ellen MacArthur e dell’Unep che include tra gli inadempienti Pepsi, Coca-Cola, Mars e Nestlé. Quest’ultima si è giustificata adducendo la mancanza di infrastrutture per il riciclo in molte parti del mondo mentre Mars ha ribadito di aver investito migliaia di milioni di dollari nella ricerca di nuove forme di packaging. In ogni caso, la pressione della lobby della plastica si è fatta sentire con forza a Punta del Este. « Pur in minoranza, gli oppositori all’idea di regole e standard globali sono potenti – ha affermato Eirik Lindebjerg del Wwf – e cercano di indebolire i meccanismi di controllo internazionale». L’Onu, tuttavia, è ottimista sulla possibilità di arrivare a un accordo. « I cittadini se lo aspettano, c’è grande attenzione sulla questione da parte dell’opinione pubblica. Ma dovremmo essere flessibili – ha concluso la segretaria dell’Inc Mathur-Filipp –. Non c’è molto tempo».
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