“Resistere”, dal latino rĕ-sistĕre, significa letteralmente “restare al proprio posto”, sopportare senza lasciarsi abbattere, tenere testa a una forza potenzialmente distruttiva. L’etimologia della parola rimanda ai concetti di tenacia e stabilità, ma anche – in un certo senso – all’atto del “difendere”, attraverso la non-resa, qualcosa a cui abbiamo accesso o che ci appartiene: uno spazio, un diritto, uno status. Difficilmente il concetto di resistenza viene associato all’azione di un unico individuo: più spesso, il termine rimanda infatti al concetto di comunità, una collettività di persone che, a fronte di una minaccia comune, agisce in funzione di un unico obiettivo. Quella di agire in concerto con chi condivide una condizione simile alla propria, d’altronde, è una tendenza connaturata all’essere umano, una vera e propria strategia di sopravvivenza.
Accanto alla consolidata resistenza portata avanti da alcune minoranze sistematicamente oppresse, l’ultimo anno ha visto, in diversi Stati europei ed extra-europei, l’emergere – o il rafforzarsi – di molteplici movimenti di opposizione, spinti da istanze diverse ma che condividevano la volontà di rivendicare i più basilari diritti umani e civili, quali la libertà religiosa, quella sessuale o la possibilità di manifestare liberamente il proprio dissenso politico.
Talvolta, come accaduto in Iran, l’inizio delle rivolte ha coinciso con un evento preciso – l’omicidio della ventiduenne Masha Amini da parte della Polizia morale –, ma è immediatamente stato chiaro che le motivazioni alla base della reazione della popolazione fossero ben più radicate. In altri casi, la negazione delle libertà fondamentali della popolazione è sembrata arrivare in modo più improvviso: è il caso della popolazione ucraina, costretta, nel giro di poche settimane, a scegliere se arrendersi o agire per difendersi.
Nel continente europeo, uno degli esempi più significativi di resistenza organizzata riguarda la Bielorussia. L’origine del movimento di opposizione bielorusso risale alle elezioni “farsa” dell’agosto del 2020 e alla successiva rielezione del presidente Aljaksandr Lukašenko, al sesto mandato in ventisei anni. A oggi, dichiararsi contrari al regime di Lukašenka è sostanzialmente impossibile: se a ottobre 2021 il numero di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri bielorusse sfiorava i settecento, infatti, a un anno di distanza la cifra è più che raddoppiata. Sovraffollamento, torture e isolamenti forzati costituiscono solo una parte dei trattamenti riservati alle persone ritenute colpevoli di essersi riunite in assemblee pacifiche, aver offeso il presidente o aver manifestato, nel corso dell’ultimo anno, il proprio sostegno alle forze armate ucraine invece che alle alleate russe. A ciò si aggiungono poi i sistematici sequestri degli attivisti – poi morti nei commissariati in “circostanze non chiare” –, gli stupri di manifestanti e prigioniere da parte della polizia e il ricorso a pratiche come l’elettroshock sulle persone arrestate.
Ciononostante, proprio l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha offerto ai dissidenti bielorussi un’inedita occasione per rinnovare la propria strategia di resistenza, unendosi ai combattenti ucraini o sabotando le ferrovie destinate al trasporto degli armamenti russi nonostante la minaccia della pena di morte (i cosiddetti “partigiani delle ferrovie”). Lo scorso maggio, la condanna della dittatura di Lukašenko è stata rinnovata anche dal Parlamento Europeo, il quale ha poi accolto la proposta della Commissione Europea di estendere anche alla Bielorussia il successivo pacchetto di sanzioni europee destinate alla Russia: la detenzione in carcere di chi si occupa di difendere le istanze sindacali, il ricorso “indiscriminato e diffuso” all’azione penale nei confronti dei cittadini per motivi politici e – non ultimo – il mantenimento della pena di morte, nota infatti l’europarlamento, costituiscono un attacco ai diritti fondamentali sanciti dalle convenzioni internazionali, reso ancora più inaccettabile dall’esplicito sostegno fornito dalla Bielorussia alla “guerra di aggressione illegale, ingiustificata e non provocata della Russia contro l’Ucraina”.
Il fatto che la Bielorussia costituisca l’unico Paese europeo in cui l’esistenza di una dittatura risulta universalmente riconosciuta non implica, però, che Lukašenka sia anche l’unico Presidente europeo ad aver trasformato il proprio Governo in un’autocrazia de facto. Mentre da mesi, in Polonia, le proteste pacifiche contro l’eliminazione del diritto di aborto e le discriminazioni della comunità LGBTQ+ tendono sistematicamente a sfociare in manganellate contro gli attivisti e processi ai danni delle manifestanti, nella vicina Ungheria di Orbán le violazioni dei diritti umani denunciate da Amnesty International passano infatti dall’approvazione delle nuove leggi anti-LGBTQ+ alle violazioni del diritto alla privacy legata al frequente utilizzo, da parte del governo, dello spyware Pegasus, tecnologia di spionaggio di produzione israeliana in grado di infiltrarsi in computer e cellulari di giornalisti e dissidenti politici e accedere così a qualsiasi tipo di dato.
Anche il trattamento disumano riservato ai migranti dal governo ungherese è stato più volte condannato dalle istituzioni europee. Nel 2020, per esempio, la Corte di Giustizia dell’UE ha giudicato illegale la detenzione forzata dei richiedenti asilo nelle cosiddette “zone di transito” al confine con la Serbia – grandi campi profughi recintati con filo spinato e destinati a ospitare, senza cibo, acqua o assistenza medica, le persone in attesa di un permesso per entrare nel Paese; lo stesso destino ha riguardato, nel 2021, anche la legge “Stop-Soros” del 2018, voluta da Orbán per criminalizzare l’attività delle ONG. Nello stesso anno, il Parlamento Europeo aveva delineato dodici aree di preoccupazione relative al mancato rispetto, da parte dell’Ungheria, dei diritti fondamentali dell’UE stabiliti nel 2000 dalla Carta di Nizza, compreso il diritto di asilo per le persone rifugiate. Lo scorso settembre, a fronte di un ulteriore deterioramento della situazione, l’europarlamento ha infine suggerito alla Commissione Europea di astenersi dall’approvazione del Recovery Fund ungherese finché il Paese, definito un’autentica “autocrazia elettorale”, non fosse tornato a rispettare i valori fondanti dello Stato di diritto promossi dall’UE.
La mancata applicazione delle tutele teoricamente previste dall’UE, d’altra parte, non riguarda solo i rifugiati diretti in Ungheria. A condividere una situazione simile sono, per esempio, anche le persone migranti giunte ai confini dell’Europa orientale attraverso la rotta balcanica (sistematicamente respinte o, in alternativa, picchiate e torturate dalla polizia locale); quelle sbarcate sulle coste europee del Mediterraneo, quando non morte nel tentativo di raggiungerle; o, ancora, quelle bloccate nei centri di detenzione libici con la complicità dell’Italia. Anche la difesa dei diritti di queste persone non può prescindere dall’adozione di una strategia condivisa da tutti i Paesi UE, come d’altronde ricordato dai cittadini europei stessi durante la Conferenza sul futuro dell’Europa organizzata l’anno scorso dall’europarlamento.
La vicenda dell’Ucraina merita poi uno spazio a parte. Mentre nei casi di Bielorussia, Ungheria e Polonia le violazioni dei diritti di base della popolazione sono provenute dal Governo in carica, infatti, l’invasione russa del Paese è stata fin da subito caratterizzata dalla netta distinzione rispettivamente di aggressore e aggredito e dal conseguente sostegno, da parte del governo Zelensky, alle manifestazioni di protesta sviluppatesi spontaneamente nelle città occupate. Si è trattato di un’aggressione immotivata, violenta e unilaterale, rispetto alla quale l’intera società civile ucraina non ha esitato a scegliere la resistenza. Una determinazione che le è valsa, nella giornata di mercoledì 14 dicembre, anche l’assegnazione del Premio Sakharov per la libertà di pensiero, massimo riconoscimento conferito ogni anno dall’europarlamento a gruppi, organizzazioni o singoli individui che si siano distinti nell’ambito della difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Come osserva Ivan Fedorov, sindaco della città ucraina di Melitopol intervistato nel giorno precedente la premiazione, la difesa armata del Paese è stata solo una delle molteplici strategie di resistenza adottate dalla popolazione aggredita. “Fin dai primi giorni di occupazione, migliaia di persone hanno invaso le strade, dichiarando a gran voce che non si sarebbero arrese”, ha raccontato Fedorov, evidenziando poi come la stessa determinazione abbia riguardato ogni aspetto della vita quotidiana delle persone residenti nei territori occupati. “I russi hanno occupato scuole e asili, imponendo anche agli studenti la loro propaganda. Stando alle nuove regole, ora i bambini potrebbero cantare solo canzoni russe, disegnare per i soldati russi e studiare sui libri russi, pena la deportazione delle loro famiglie e dei loro insegnanti. Eppure, non tutti gli insegnanti hanno ceduto, e per questo sono stati uccisi”.
La difesa dei valori democratici, però, non può passare solo per il sacrificio di una parte della società civile: riprendendo Oleksandra Matviychuk, avvocata specializzata in diritti umani e leader del Center for civil liberties (CCL), Ong con sede a Kyjiv, e co-vincitrice del premio Nobel per la Pace 2022 per aver documentato “i crimini di guerra perpetrati dai soldati russi, gli abusi contro la popolazione civile e il trasferimento forzato dei cittadini ucraini dalle aree occupate alla Russia”, l’unica strategia possibile per porre fine al conflitto è infatti la creazione di un fronte unito, che coinvolga in primis le istituzioni europee. “Gli eventi di quest’anno sono anche risultato dell’impunità concessa alla Russia fino a questo momento”, sostiene Matviychuk, ricordando come, negli ultimi otto anni, i crimini di guerra compiuti dall’esercito di Putin e registrati dal CCL – escluso, quindi, l’enorme sommerso di atrocità non documentate – siano stati oltre 27mila. “Per interrompere definitivamente questi soprusi, è necessario che il loro riconoscimento e la loro condanna avvengano su base comunitaria”. L’appello al sostegno di un tribunale internazionale per condannare collettivamente i crimini russi è stato poi ribadito anche dal presidente ucraino Zelensky, in un videomessaggio trasmesso durante la consegna del premio Sakharov.
La stessa giustizia va infine assicurata anche a chi, nonostante le tutele teoricamente previste dall’UE, ogni giorno subisce in prima persona le contraddittorietà di un sistema incapace di garantirle non solo nella teoria, ma anche nella pratica. Come emerge dall’ultima indagine Eurobarometro, la difesa della democrazia, dei diritti umani e della libertà di pensiero dentro e fuori dall’Unione rimane infatti la priorità dei cittadini UE. La tutela dei valori fondanti dello Stato di diritto, d’altra parte, è a sua volta parte integrante del progetto europeo, da perseguire sia vigilando sull’operato dei singoli Paesi sia sostenendo chi, consapevole dei rischi che il proprio atteggiamento avrebbe potuto comportare, ha scelto di assumersi in prima persona la responsabilità di difenderli, facendo della resistenza la propria pratica quotidiana. A fronte di una sistematica soppressione delle libertà di base, l’unica risposta possibile rimane la ferma, compatta condanna di ogni abuso: solo questa chiara unità di intenti sarà in grado di offrire alla società civile oppressa il sostegno di cui ha bisogno, garantendo all’Europa la forza necessaria per non cedere ai ricatti delle dittature.
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