Malinconia, non (più) rabbia. Nel quadrante che registra gli stati d’animo nazionali, siamo scivolati lungo questa diagonale: da un’estroversione aggressiva, giù, verso un rintanarci al riparo dal mondo. Sono movimenti minimi, di solito, talvolta impercettibili. In questo 2022, invece, abbiamo fatto un balzo che ha sorpreso i ricercatori del Censis. Il 90% delle persone intervistate ha indicato «tristezza» come l’area dove indugia il pendolo dell’umore quotidiano. L’interpretazione del Centro Studi Investimenti Sociali è che, dall’inverno scorso a questo, si è assottigliato fino a strapparsi il diaframma che separa la Grande Storia dalle piccole storie. È come se nel mondo “fuori” la membrana che dentro di noi si frappone tra torace e addome, fra respiro e viscere, fosse stata schiacciata da una sequenza di eventi insostenibili. La pandemia che non finisce, la guerra in Ucraina, l’inflazione intrecciata alla crisi energetica, lo sconvolgimento climatico…
L’irruzione dei mali universali genera una malinconia diffusa, fotografata da una manciata di percentuali. Il 61% teme lo scoppio di una Terza Guerra Mondiale, poco meno (il 59) non esclude il ricorso all’atomica, poco meno ancora (il 58) vede l’Italia in prima linea. E, in tutto questo, una maggioranza più ampia (quasi il 70) pensa che il tenore di vita individuale «si abbasserà ». Da qui il ritrarsi, la delusione, una nostalgia che è già rassegnazione. La nostra mappa collettiva, coperta da una foschia intercontinentale, punta però in una direzione limpida: una richiesta di equità che, pur ereditando dal passato prossimo l’ostilità per i privilegi, si è come disarmata. Il rapporto Censis descrive «un ripiegamento post populista»: è andata dispersa quella propulsione minacciosa che ha fatto da munizione a giovani vecchi leader sovranisti.
C’è ostilità – «ripulsa», questa la parola indicata – per i bonus e le buonuscite milionarie, per le multinazionali che non pagano le tasse, per i jet privati e l’incessante show-off degli influencer. Non segue, tuttavia, una volontà di mobilitarsi, scioperare, contestare. Una misurazione di questo smorzarsi sociale è l’astensione dal voto del 25 settembre scorso: il 39% degli “aventi diritto” ha preferito non averlo, ha deciso che quel diritto non avrebbe cambiato nulla ed è rimasto a casa. L’analisi del Censis disegna un triangolo tra lavoro/benessere/democrazia così scaleno da non con-tenere più le tensioni.
Eppure, tra le righe dei dati, una luce sembra lampeggiare. In questa età dell’incertezza, la contrazione degli scambi internazionali ha attivato una risorsa definita friend shoring. Le esportazioni italiane dirette a Paesi amici sono cresciute: più 22,9% verso Unione Europea e Regno Unito; più 31 verso Canada, Stati Uniti, Messico; più 30 nel Mediterraneo. Un’accelerazione che non compensa la decelerazione globale, ma individua il corso di correnti anti-stagnazione nell’humor nero. E forse anche noi – proprio in questa vigilia di malinconico Natale – alle consolazioni effimere della Schadenfreude, quel gongolare per le sfortune altrui, potremmo contrapporre una meno scontata Freudenfreude. La capacità di gioire se qualcosa, intorno, comincia a girare. Abituati alle cupezze del cinismo più che a una competizione civile, all’inizio ci apparirà un sentimento contro natura. Ma poi, chissà, potrebbe rivelarsi un movimento. Un altro spostamento. Dopo aver abbandonato la zavorra rabbiosa dei populismi, se così è stato, avremmo la chance di una transizione personale. Dalla malinconia come indolenza e lutto persistente, alla malinconia come sponda di desideri nuovi. Di aspirazioni al largo di quanto, giustamente, ci spaventa e, ingiustamente, ci trattiene al buio.
https://www.corriere.it/sette/editoriali/22_dicembre_16/non-piu-rabbia-se-malinconia-diventa-parola-chiave-bene-o-male-df06811a-79a2-11ed-8344-c3533b7da612.shtml
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