Una campana di vetro dà il nome al romanzo di Sylvia Plath, come quelle che si usano per proteggere gli oggetti fragili, quella che il piccolo principe usa per coprire la sua rosa. Solo che questa volta la campana è usata per isolare dall’esterno, non perché pericoloso, ma perché qualcosa ci induce a stare dentro la campana, anche contro la nostra volontà.
È quello che succede alla protagonista Esther Greenwood, una ragazza curiosa e sognatrice, studentessa di un college prestigioso che guarda avida il suo futuro, attendendolo. Ma questo non sarà clemente con lei.
Esther è indecisa, profondamente indecisa, infatti tutti i suoi possibili futuri le si dispiegano davanti, ma lei non sa scegliere. Il tipico dramma di una donna di quell’epoca. Continuare a studiare, costruirsi una carriera e inseguire i suoi sogni, ma una famiglia? Oppure cercare marito, Esther ci riuscirebbe eccome, ha già proposte di questo tipo, creare una famiglia, avere dei figli, abbandonando il sogno di scrittrice. E poi tutte le esperienze che le rimangono da fare, visitare l’Europa, scrivere per riviste, avventure giovanili che sfioriscono man mano. Esther è presa non tanto dal presente o dal passato, ma dal futuro, che la assilla quotidianamente, soprattutto attraverso le persone che incontra e ciò che le dicono.
In una società che punta solo a produrre, Esther si sente senza fiato davanti alle sue scelte, perché non sa cosa scegliere. Una strada implica abbandonare un’altra e non c’è modo di percorrerle entrambe.
La famosa dicotomia famiglia-lavoro che ha attanagliato il destino dei giovani, soprattutto donne, per oltre un secolo e continua a farlo ancora. Una dicotomia inserita in un contesto sociale ben preciso, il cui scopo è solamente avere prodotti di qualunque tipo. Esther vuole continuare il percorso del college, ma riceve una proposta di matrimonio. La rifiuta, decide di continuare per la sua strada, ma all’improvviso non riesce più a leggere, a scrivere. Apparentemente ha perso, per tutti gli altri lei ha perso contro la vita e il futuro.
Decisivo è il momento in cui Esther è consapevole delle sue difficoltà e incapacità:
Per la prima volta, […] mi sentii un’incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci. L’unica cosa che sapevo fare bene era vincere borse di studio e premi, e anche quell’epoca stava per finire. Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi […]. Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi cominciarono ad avvizzire e annerire, finché uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi. (La campana di vetro, Sylvia Plath, Mondadori, 2016, p. 64,65)
Lei vede tante possibilità davanti a sé, ma non ha nemmeno il tempo di scegliere e poter usufruire di quei frutti, che appassiscono tutti. La vita di Esther non è singolare. Al momento, in questa società, tutti i giovani sono un po’ Esther. Schiacciati dalle decisioni nei confronti del futuro. Prima il liceo, poi l’università, il lavoro, l’amore. Decisioni da prendere con la gente nelle orecchie che cerca di indirizzarti, dei grilli parlanti che confondono solamente, magari facendoti sbagliare strada.
In una società che corre, che non aspetta nessuno, come viene molto spesso ripetuto, se si riesce a stare al passo è bene, altrimenti si viene lasciati indietro, come scarti. Persone che non sono riuscite a scegliere in tempo e il cui fico è già appassito, oppure che non riescono a coltivare. Almeno questo è quello che ci dicono gli altri.
Una pressione sociale, potremmo definirla, che spinge a fare tutto, magari fare anche di più, che spinge gli individui a essere produttivi. Ma quello che importa non è l’individuo in sé, ma ciò che produce. Si chiedono ottimi prodotti in qualunque campo: buoni voti a scuola, all’università, eccellere in uno sport, essere bravi a lavoro, avere diversi hobby, e se non si riesce, ecco che spunta la parola fallimento, come nei cartoni animati, una targhetta con le lettere illuminate sulla testa.
Esther ha questa targhetta sulla testa, ha fallito, o meglio le dicevano di aver fallito. Ma qual è l’unità di misura usata da questa società per misurare il fallimento? Sì, perché sembra quasi una misura e la risposta è anche altrettanto semplice: non si è arrivati alla perfezione. Non si è arrivati ad avere un prodotto perfetto. E il prodotto perfetto siamo noi, noi che veniamo considerati prodotti insieme a quello che ipoteticamente potremmo o dovremmo produrre. In una società iperproduttiva noi stessi siamo un prodotto, con tanto di marchio di fabbrica, dove quelli difettosi vengono scartati o lasciati ai margini, coloro i cui fichi sono appassiti.
Ma se al posto di pescare da un fico, decidessimo di piantarne uno? E magari decidere di non piantare un fico, ma di coltivare un’altra pianta? Se decidessimo di andare contro quello che sembra un algoritmo ben definito? Da un lato il meccanismo si inceppa, dall’altra avremmo un bellissimo giardino. Perché in realtà pescare frutti da un albero già piantato è molto comodo, non bisogna piantare nulla, non bisogna aspettare che cresca e infine curarlo. Avere già un fico da cui cibarsi è molto più comodo.
E la domanda diventa: perché le diverse scelte, i diversi fichi devono essere già spiegati davanti a sé? Si può decidere quali avere davanti? Perché deve essere una scelta condizionata?
Penso che questa sia una domanda semplice, anche innocente, la cui risposta invece è più complessa. Noi non dobbiamo obbligatoriamente raccogliere i frutti dal fico. Possiamo, se vogliamo, piantare un bellissimo frutteto, così da non essere prodotti, da non identificarci in un mestiere, in un nome, in un aggettivo e decidere di andare contro chiunque ci offra frutti prestampati. Scegliere di essere autonomi, di vivere appieno la nostra esistenza, di non pescare frutti solo da un fico, ma avere un bellissimo giardino da coltivare, che vada oltre l’utilità di ciò che si potrebbe eventualmente produrre.
[Studentessa in Fisica, UniBa]