ll Marocco è in semifinale ai mondiali del Qatar. Mai l’Africa era salita così in alto calcisticamente parlando. Una festa incontenibile quella dei tifosi che ha trovato la sua metafora più eloquente quando, al termine della partita vinta sabato scorso 1 a 0 con il Portogallo, uno dei giocatori, Sofiane Boufal ha iniziato a ballare in mezzo al campo insieme alla madre.
Sul fatto che la nazionale magrebina fosse in grado di raggiungere un simile traguardo, nessuno avrebbe scommesso, prefigurando un simile successo. E attenzione: non è ancora detta l’ultima parola. Questa rappresentativa nordafricana potrebbe fare ancora meglio, salendo più in alto. Sta di fatto che ha già eliminato sul prato, per così dire, due ex potenze coloniali, oltre che calcistiche — Spagna e Portogallo — e certamente si giocherà le sue chance in semifinale anche contro la Francia, campione del mondo uscente.
Se così fosse sarebbe davvero la dichiarazione di un “mondo capovolto” perché il Marocco non è affatto una squadra blasonata, pur contando tra le sue fila molti giocatori che militano nelle migliori squadre europee. E proprio in molte capitali del vecchio continente, oramai casa per generazioni di migranti, i festeggiamenti della tifoseria marocchina hanno avuto una risonanza particolare. Entusiasmi comprensibili, naturalmente, e alimentati dall’affermazione di una “squadra rivelazione”. Entusiasmi però purtroppo funestati da atti vandalici e di violenza. Come quelli verificatisi, ad esempio, a Milano, dove si sono registrati il ferimento di un giovane marocchino e diversi casi di aggressioni nei confronti dei tifosi.
Una cosa è comunque certa: lungi da ogni retorica di circostanza, siamo di fronte al riscatto di una periferia del mondo, quella che ha dato i natali a tanti lavoratori stranieri disseminati nel Vecchio Continente. Non v’è dubbio che questo costosissimo campionato del mondo, giocato dentro stadi iper-tecnologici e ipercriticati sin dalla loro costrusione, per quanto stia mettendo in mostra fuoriclasse d’ogni genere, i cui ingaggi peraltro vanno ben al di là di ogni logica comprensione (e anche alcuni giocatori marocchini, i più celebrati, rientrano in questa logica distorta), sta comunque registrando una significativa evoluzione, dal punto di vista sportivo, delle consuete gerarchie. Per quanto un campione possa essere quotato nel circuito del cosiddetto calciomercato, non è affatto detto che poi debba essere capace per forza di esprimere una corrispondenza con i risultati sul campo. E una rappresentativa del Sud del mondo, che certamente, come movimento nazionale, non dispone dei mezzi e delle risorse delle grandi squadre, è in grado comunque di vincere.
E nello specifico caso del Marocco il risultato non è solo sportivo, ma anche antropologico, dimostrazione eclatante che per segnare servono anche e soprattutto una forte motivazione, uno spirito agonistico, tanta passione che in Africa — lo sanno bene i nostri missionari — hanno un radicamento millenario. È la rivalsa incruenta, attraverso lo sport, di un intero continente che per inciso è stata la culla dell’homo sapiens, dunque dei nostri progenitori. Non sorprende quindi che, a questo punto, molti sportivi in tutto il mondo faranno il tifo con lo spirito di quel maestro sufi secondo cui il perdono — e l’Occidente ha molto da farsi perdonare dai popoli del Sud del mondo — è «quella fragranza che emanano i fiori dopo essere stati calpestati».
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