A furia di perdere le elezioni, il Pd ha perso anche l’anima? Dopo ogni sconfitta si sono sempre moltiplicati gli appelli a ritrovare l’ispirazione originale, il filo conduttore smarrito, condizione per una possibile rinascita. Ma stavolta la grande novità è che nessuno sa più quale sia quel filo. Per cercarlo, hanno chiamato 87 «saggi» a rifare il lavoro dei 45 «saggi» di quindici anni fa: raddoppiando il numero delle teste si punta a riscrivere — badate bene, non aggiornare ma proprio riscrivere — la «carta dei valori» fondativi, visto che quella del 2007, sulla cui base si sono finora chiesti voti e sacrifici ai militanti, è considerata «bolsa e indigeribile», come ha detto un membro del Comitatone.
E già si accenna a scelte drastiche, certamente foriere di un grande impatto nelle masse popolari, tipo «espungere l’ordoliberismo», oppure «creare giustizia per il Pianeta». Tutto ciò ci dice che il Pd si considera già sciolto. E infatti definisce «costituente» il prossimo congresso, al quale dunque partecipano anche iscritti ad altre forze politiche o a nessuna.
E avvia perfino il dibattito su un nome nuovo: «Partito Democratico del Lavoro» è finora il più gettonato (sigla PaDeL o PdL?), forse anche per recuperare il tempo perduto dai ben quattro ministri del lavoro che i Democratici hanno finora espresso.
Ma ciò che più preoccupa chi ha a cuore le sorti di una democrazia compiuta, bisognosa di un’opposizione in salute, è che neanche dal viluppo delle correnti, diventato così inestricabile da ricordare lo «gnommero» della lingua di Gadda, si riesce più a tirar fuori quel filo.
In un partito multicefalo e a leadership collettiva, infatti, le correnti dovrebbero servire proprio a questo, a definire una nuova maggioranza e una nuova linea quando la precedente è fallita. La Dc, forse il partito più simile al Pd per caratteristiche di vita interna, ne trasse a lungo giovamento, perché attraverso il pluralismo espresso dalle «correnti» riusciva ad assorbire le pulsioni più varie e spesso in conflitto tra loro della società civile, diventando così ciò che i politologi definiscono un «partito pigliatutto».
Ma nel Pd si è superato ormai il punto critico oltre il quale le «correnti» rinunciano a essere «aree culturali», o a rappresentare chicchessia, per trasformarsi invece in agenzie interinali di incarichi, compagnie di assicurazione contro il rischio di restare senza. E allora anche la «corrente» non sa più che cosa vuole, per che cosa filosofare, e fa del «primum vivere» la sua bandiera.
Solo così si spiega uno dei grandi paradossi di questa campagna congressuale, e cioè perché mai la corrente guidata dall’ex democristiano, moderato e governista per antonomasia, Dario Franceschini, sia orientata a sostenere alle primarie la militante radicale e sinistrorsa Elly Schlein, che voleva «occupy il Pd» contro la nomenclatura. Mentre invece l’ex comunista Bonaccini è sostenuto da chi insieme con Renzi rottamò D’Alema e Bersani.
Si vede che Franceschini teme più la futura corrente di Bonaccini, che gli toglierebbe posti e spazio, della corrente di chi propone di sciogliere le correnti, campa cavallo. E viceversa. Più di ciò che farà il nuovo segretario, interessa solo che tenga in piedi la baracca per un altro anno o due. Tanto poi si cambia. Il simbolo più chiaro dello smarrimento generale è l’esitazione di Bettini, uno che pure ha sostenuto negli anni tutti i segretari del Pci, del Pds, dei Ds e poi del Pd, ma stavolta non sa su chi puntare.
La progressiva indifferenza ai contenuti della politica ha concentrato sempre più il Pd sulla gestione del potere. Rivendicandolo — intendiamoci — per un nobilissimo motivo: e cioè tenere in vita il partito che si ritiene essenziale «per fermare le destre». Ma smarrendo l’anima in un groviglio di contraddizioni, che un po’ alla volta tornano come convitati di pietra per prendersi la loro vendetta.
Così il Pd si batte oggi contro l’autonomia differenziata, tentando di far dimenticare che era contenuta nella riforma costituzionale del centrosinistra nel 2001. Deve difendere dalle «destre» il reddito di cittadinanza, contro cui votò durante il governo Conte I. Ha dovuto approvare il taglio dei parlamentari, che aveva contrastato in quanto sommo atto populista. Deve sconfessare il Jobs Act che un suo governo ha prodotto. O strillare contro un aumento del tetto al contante analogo a quello che decise quando governava. Oppure ancora, last but not least, partecipare a una manifestazione contro le armi all’Ucraina che contesta ciò che ha fatto il suo ministro della Difesa.
È questo il problema del Pd, non altro. Lasciate stare le fumisterie ideologiche, i dibattiti colti. Smettetela di chiedervi che cosa vuole essere il Pd, e diteci che cosa vuole fare.
Le ultime misure sociali o economiche di una qualche importanza ideate da quella parte risalgono ormai ai governi Renzi: gli 80 euro e il Piano industria 4.0. Eppure il dibattito congressuale appena cominciato è così vuoto di proposte concrete, di «policies», di contenuti e di misure per cui battersi, da essersi finora svolto come l’ennesimo referendum su Renzi, che fu leader ormai quattro segretari fa. Persino il radicamento nazionale, a lungo fiore all’occhiello di quel partito, sembra ormai ridotto al torneo emiliano-romagnolo delle primarie.
È per questa lunga vacanza dallo studio e dal lavoro politico che il gruppo dirigente del Pd è oggi sull’orlo dell’abisso, e trova «oramai fragilissimi gli elementi comuni che ci tengono insieme». Parola di Zingaretti, uno che se ne intende.
https://www.corriere.it/editoriali/22_dicembre_09/filo-smarrito-sinistra-6cddecf4-77fe-11ed-8b31-7101dab59dee.shtml
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