Continuando la riflessione sulla sessualità del prete, accettando la sfida dell’articolo di Domenico Marrone di detabuizzare la vita sessuale del prete, vogliamo soffermarci sull’espressione regime di pornocrazia utilizzata dal nostro autore. Si tratta di una espressione che ci suscita interesse non tanto e non solo per il tema trattato, ovvero della pornografia, quanto per l’immaginario politico e sociale che ne emerge. Parlare, infatti, di regime di pornocrazia, significa affermare non solo che la sessualità del prete ma la sessualità in generale, oggi, ha bisogno di confrontarsi sulla questione onnipervasiva del porno. Man mano che l’educazione sessuale è scomparsa dal tessuto sociale, dall’insegnamento famigliare e pubblico, come anche dagli incontri e dalle discussioni con i gruppi ecclesiali, c’è stata, potremmo dire, una delega della sessualità, in generale, alla pornografia. In altre parole, se i nostri ragazzi e ragazze non ricevono informazioni adeguate o, ancora meglio, narrazioni e spazi narrativi della propria sessualità, altro non possono fare che trovare le informazioni e le narrazioni su internet. Le statistiche sull’accesso a siti pornografici sono costantemente in salita e, in inversa proporzione, l’età delle persone che accedono. In un suo articolo, Raffaele Cardone riporta i dati dell’Online Nation 2021 che attestano il maggior consumo di video porno ad una fascia che si aggira fra i 18 e i 24 anni, per arrivare anche ai 12 anni, con un ricavato netto di 22 milioni di dollari. Il modello più vantaggioso a livello di consumo e mercato del porno rimane OnlyFan, piattaforma in cui non solo si possono condividere contenuti pornografici ma anche interagire con i e le performers, creando prestazioni sessuali sempre più adatte all’individuo. (cfr. https://maremosso.lafeltrinelli.it/approfondimenti/il-mercato-del-porno-e-i-pericoli-per-le-generazioni-piu-giovani). Anche papa Francesco, in un suo recente intervento sull’uso dei social e dei mezzi di comunicazione ha ammesso che anche molti preti e suore guardano video porno e accedono a siti pornografici. Una espressione che ha creato scandalo, sicuramente, ma che ci pare essere in sintonia con quel tentativo di detabuizzare la sessualità del prete, non per giudicarla in nome di un moralismo benpensante e borghese, ma per farla emergere anche dall’aggrovigliamento della pornografia. Dunque, se la relazione fra sessualità e pornografia meriterebbe una trattazione ampia, cerchiamo di concentrarci qui sul rapporto perverso fra pornografia e sessualità del presbitero. E parliamo di rapporto perverso in quanto è la perversione stessa che, a nostro parere, lega il rapporto che il prete ha con la sua sessualità e il consumo di pornografia. Slavoij Žižek, rifacendosi a Jacques Lacan, individua il perverso come modalità di accesso all’Altro.
Per Lacan, un perverso non si definisce per il contenuto di quello che fa (le sue bizzarre pratiche sessuali). La perversione, infatti, risiede fondamentalmente nella struttura formale secondo cui il perverso si rapporta alla verità e al discorso. Il perverso rivendica un accesso immediato a una qualche figura del grande Altro (da Dio, o dalla storia, fino al desiderio della sua partner), in modo da essere in grado, dissipando tutte le ambiguità del linguaggio, di fungere direttamente come strumento del volere del grande Altro.[1]
Prima ancora dei contenuti perversi, i quali possono manifestarsi nell’accesso e nel consumo di video pornografici, il problema del presbitero o del religioso e religiosa è quello dell’accesso alla figura dell’Altro. In particolare, quando parliamo di Altro, nella vita religiosa, intendiamo ovviamente Dio o, meglio, ancora la raffigurazione che abbiamo di Dio. In questo stretto legame fra vita religiosa e raffigurazione di Dio si insinua la perversione, la quale consiste nel ritenere di possedere un accesso diretto a Dio, di essere, in qualche modo, i diretti esecutori della volontà di Dio. Investiti di un compito del tutto privilegiato, quando nella vita del presbitero o del religiosi inizia ad insinuarsi il pensiero di essere l’intermediario fra la volontà di Dio e gli altri o le altre, ecco che emerge la perversione come accesso diretto al volere del grande Altro. Questa perversione è ciò che, già altrove, abbiamo chiamato clericalismo come pretesa di avere immediato accesso alla verità di Dio, assimilando Dio al grande Altro che funge da norma per l’esistenza individuale. Detto in altri termini, è un assimilare Dio alla nostra raffigurazione di Dio, schiacciando l’intermediazione su di noi. A questo proposito, vogliamo ricordare che la vita cristiana non pone il presbitero come il mediatore fra Dio e gli esseri umani, ma Cristo come unico mediatore a cui il sacerdozio ordinato partecipa. Questa piccola sottolineatura ci sembra importante come vaccino ad ogni forma di clericalismo e di clericalizzazione sia del ministero presbiterale sia del laicato. Il mediatore è Cristo Gesù, per cui ogni nostra raffigurazione di Dio si inserisca prima nella mediazione di Cristo e, poi, nella storia personale di ciascuno e ciascuna, nell’esperienza che possiamo vivere di Dio. Ed è proprio la mediazione di Cristo che ci salva dalla perversione dell’immediatezza del grande Altro e, di conseguenza, dalla perversione pornografica della sessualità del presbitero. Infatti, prima ancora dell’accesso e del consumo di video porno, la sessualità del presbitero perversa nella pornografia riguarda questa pretesa di accesso immediato Dio che si pone come base del potere clericale. Potere che, in seguito, può manifestarsi anche in un’ampia gamma di azioni del tutto simili ai caratteri della pornografia: brevità, intensità, quantità, simulazione, anaffettività, incomunicabilità, violenza.
La pornografia si caratterizza non per l’atto sessuale in sé, ma per il modo con cui viene condotto il rapporto sessuale. Un rapporto simulato fra due persone che non ha bisogno di lunghe durate ma di una prestazione penetrativa del maschio sulla femmina o, comunque dell’elemento attivo su quello passivo. Il rapporto sessuale, insomma, sembra essere solo l’involucro della prestazione penetrante per cui la sessualità si riduce a chi mette dentro chi cosa. Ma, vista in questa prospettiva, anche molte le relazioni clericali e clericalizzate possono essere delle relazioni pornografiche. Se l’elemento attivo è il privilegiato che ha immediato accesso all’Altro, allora il passivo è colui che è soggetto al volere divino camuffato dalle raffigurazioni dell’Altro da parte dell’elemento attivo. Detto in altri termini, la prestazione penetrante è quell’esercizio del potere da parte di chi è investito del potere stesso dall’Altro rispetto a chi non ne è investito e che deve, in qualche modo, subire quel potere. Per utilizzare un’immagine romanzata ma che ben esprime tutta questa violenza pornografica della prestazione penetrante nella vita del presbitero, ci rifacciamo all’ultimo romanzo di Edoardo Albinati, Uscire dal mondo. In uno dei tre racconti, Albinati scrive del farmacista Fanelli che racconta la perversione di padre Alighiero durante la confessione di Elvira. Mentre Elvira cerca le parole giuste per parlare della propria intimità, padre Alighiero cerca di farle violenza, prima verbale poi fisica. In un passaggio della confessione di Elvira, padre Alighiero esclama: «Oh, insomma, basta giri di parole Elvira, basta chiacchiere, ne abbiamo fatte a sufficienza, e troppo tempo s’è perso». «Insomma, – replica Elvira – cosa vuole da me, Padre?». «Cosa vuoi tu da me, piuttosto? Cos’è che cerchi, Elvira? Tira fuori una buona volta il tuo peccato. Voglio sentirlo con le mie orecchie, sputalo fuori!».[2] La storia prosegue sondando il desiderio morboso di padre Alighiero e della remissività di Elvira nel lasciarsi penetrare dagli ordini del frate. Ovviamente, si tratta di una versione estremamente caricata di morbosità che, tuttavia, diviene paradigmatica di una relazione perversa con Dio che si trasforma in una relazione pornografica con gli altri e le altre. Anche senza arrivare al rapporto sessuale vero e proprio, ci basta anche sottolineare quelle tensioni o propensioni che, nella vita ministeriale, ogni tanto emergono nel voler dirigere le coscienze, nel voler manipolare le decisioni altrui, nello spingere affinché gli altri eseguano ciò che io penso e dico come anche nella propensione all’identificazione degli altri e delle altre per categorie di qualsiasi tipo: dal sociologico allo psicologico. Si tratta sempre e comunque di una prestazione penetrante nelle vite delle persone, attraverso ogni loro orifizio, ogni loro pertugio, ogni loro foro, ogni loro ferita. Del resto la pornografia ci abitua ad una sessualità fatta di penetrazione dell’elemento attivo attraverso ogni cavità dell’elemento passivo. Ma anche dalle relazioni sessuali di preti con donne o uomini di cui siamo venuti a conoscenza o che sono state presentate come casi studio durante gli anni della formazione, l’elemento caratterizzante è una certa brevità, intensità, violenza nel rapporto stesso. Relazioni che, come ogni video porno e come ogni film prestazionale, sono destinate a finire lasciando strascichi di devastazione nella vita dei presbiteri, ma soprattutto nella vita delle persone che hanno vissuto con loro dei rapporti sessuali clandestini.
Per concludere questa parte della pornografia e della vita sessuale del presbitero o del religioso e della religiosa, vorremmo proporre una prospettiva strana e, per alcuni, aleatoria: la contemplazione. Molti suggerirebbero un percorso psicologico come pronta soluzione a tutti i mali, compreso questo. Eppure, il nostro intento non è offrire soluzioni ma pensare per prospettive e una di queste potrebbe essere quella della contemplazione. Una prospettiva che mi ha suggerito un mio confratello presbitero durante un’omelia quando ha affermato: “Noi contempliamo ciò che non ci appartiene, ciò di cui non ci appropriamo”. Allora, la contemplazione può essere questo: uno spazio di non appropriazione né di Dio né degli altri o delle altre. Scrive Valentina Surace a proposito dell’interpretazione dell’ausser sich (uscire fuori di sé) di Judith Butler su Hegel:
Butler osserva che «il soggetto hegeliano del riconoscimento oscilla inevitabilmente tra una condizione di perdita e una di estasi»: l’io, infatti, si perde, si trasforma, uscendo fuori di sé, disperdendosi nel mondo, incontrando l’altro. Il prezzo di essere se stessi è perdere se stessi, divenendo altro da sé. Il processo di formazione [Bildung] della coscienza è reso possibile, per Hegel, dall’esperienza [Erfahrung], un movimento di esteriorizzazione, di alienazione [Entäußerung], che è insieme un’estraniazione [Entfremdung]; in altri termini, per la coscienza l’apertura, l’uscire fuori da sé, è un’alterazione, un farsi altro da sé. Del resto, il soggetto non esiste prima di relazionarsi all’altro, perché è questa relazione ad istituirlo, ciò significa che il soggetto diviene se stesso solo mediante l’invasione dell’Altro o il rovesciamento nell’altro. E se è l’altro (il “non”) ad istituire il sé, per il sé negare l’altro equivarrebbe a negare se stesso. Il sé, dunque, si rapporta alla sua negazione, non già negando l’altro da sé, ma negando se stesso, sottraendosi a una supposta identità o coincidenza con sé, a qualsivoglia fissità e permanenza strutturale, disconoscendosi come irrelato e riconoscendosi intrinsecamente connesso all’altro.[3]
Contemplazione come negazione della proprietà su di sé, della proprietà su Dio, della proprietà sugli altri e le altre, ma come rovesciamento estatico di sé nell’altro, meraviglia delle persone che ci circondano e che ci rimandano chi siamo, perdendo noi stessi per loro. Questa è la sessualità di un presbitero che non cede alle lusinghe della pornografia clericale fatta di prestazioni penetranti nell’esistenza degli altri fino a renderle un vuoto inferno. Contemplazione che ci fa uscire fuori dalla perversione dell’accesso immediato al grande Altro e ci libera, anche da noi stessi.
[Presbitero, socio CUF]
[1] S. ŽIŽEK, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 131.
[2] E. Albinati, Uscire dal mondo, Rizzoli, Milano 2022, p. 62.
[3] V. Surace, Corpi estatici. Judith Butler interprete dell’ausser sich hegeliano, Lo Sguardo, 33(II/2021), p. 418.