In un suo recente articolo per Settimana news, Domenico Marrone ci dà modo di riflettere sulla sessualità del prete o, in generale, del ministro ordinato (vedi qui ).
Un argomento che, personalmente, suscita in me un interesse particolare: sia perché sono un uomo sessuato sia perché sono un presbitero sia per degli eventi che, qualche mese fa, mi hanno coinvolto personalmente. Sono stato chiamato a parlare, infatti, in una rassegna artistica dal titolo Erotica, sulla differenza fra eros e pornografia. Un intervento che, ancor prima di iniziare, ha suscitato un grande scalpore mediatico, non dato dal contenuto della relazione ma dal binomio esplosivo prete-sesso. Un mix storicamente esplosivo dal momento che il sesso dei preti, stando anche alle prime righe della riflessione di Domenico Marrone, è sempre stato un tabù. E, come tutti i tabù, al tempo stesso una presenza che funziona da regolatore sociale e che non può essere messa in discussione, di cui non si può parlare. Anzi, proprio il non parlare del sesso e, in modo particolare del sesso dei preti, fa sì che il sesso possa essere controllato, direzionato, agito nel segreto, in senso etimologico: in una zona a parte. Invece, l’intento di questa riflessione è cogliere la sfida che ci suggerisce Marrone nel suo intervento: detabuizzare il sesso. Tuttavia, prima di procedere a questa sfida che ci vedrà impegnati in questo articolo, come anche nei successivi e, in franchezza, per tutta la vita, ci occorre fare chiarezza sull’uso dei termini. E i primi termini che vogliamo mettere in chiaro sono: segreto e detabuizzare.
Come abbiamo già affermato, segreto viene dal latino secretum che vuol dire mettere a parte. Quando parliamo di qualcosa di segreto è, in generale, qualcosa che viene messo da parte o che viene riferito solo ad una persona. Mettere a parte una persona o prendere una persona in disparte significa metterle al corrente di qualcosa di privato e che, quindi, vogliamo che sfugga al dominio pubblico, alla pubblica piazza. In questo tipo di approccio al sesso e alla sessualità emergono le prime discrasie, soprattutto per quanto riguarda l’ordine sacro. In un suo recente libro dal titolo La casta dei casti, il sociologo Marco Marzano utilizza l’immagine dell’elefante nella stanza, per parlare della de-formazione della sessualità all’interno dei Seminari.
I seminaristi apprendono che di sesso non si deve mai parlare in pubblico, ma solo in privato, in qualche conversazione riservata con i compagni e naturalmente in confessionale e con il padre spirituale. Nell’ufficialità il sesso di fatto non deve esistere. Gli “uomini di Dio” devono apparire in grado di farne a meno e chi non ce la fa a mostrarsi casto non è degno di appartenere alla schiera degli eletti. Sesso e amore rappresentano insomma, all’interno dei seminari, “l’elefante nella stanza”, il pachiderma che è impossibile non notare, ma di cui tutti simulano l’inesistenza. L’elefante domina la scena con la sua mole immensa, eppure tutti fingono che non vi sia (Zerubavel 2006). A vedere meglio l’elefante sono naturalmente gli educatori, le guide, i professori, i padri spirituali, la popolazione più adulta che frequenta e abita nei seminari. Costoro convivono con l’elefante da quando sono entrati lì, ne conoscono, in virtù dell’esperienza maturata negli anni, ogni piega del corpo, ne sanno prevedere tutti i movimenti e ne intuiscono facilmente i bisogni. Le reclute scoprono l’esistenza dell’elefante un po’ alla volta, spesso con sconcerto e dolore. Quel che il futuro chierico mette a fuoco progressivamente è quindi che la mancanza più grave per il sistema di cui fa parte è certamente il farsi sorprendere a commettere una qualche violazione dei codici di comportamento sessuali o affettivi o l’essere sinceri, l’ammettere pubblicamente i propri desideri più intimi, primo tra tutti quello di fare l’amore e di innamorarsi.[1]
Oltre la questione formativa all’interno dei Seminari, ciò che risulta interessante è l’assimilazione del sesso a qualcosa di segreto, attinente alla sfera del privato piuttosto che alla dimensione dell’intimità. Infatti, la grande differenza che emerge dalle parole di Marzano è che il sesso appartiene ad una dimensione di segretezza che solo ad alcuni bisogna confidare e confessare, senza riportarla nella sfera dell’intimità, senza far emergere quel bisogno di fare l’amore, sia in termini di rapporti sessuali sia in termini di costruzione di relazioni di coppia, sia in termini di erotica in ciò che si fa e, soprattutto, nei confronti della corporeità. Affidare il sesso, la sessualità, la genialità alla sfera del segreto è esattamente come avere un elefante in una stanza di cui tutti fanno finta di niente e che, al tempo stesso, ingombra per la sua mole. La prima differenza da fare, allora, è fra segreto e intimità, riconoscendo che l’intimità ha una dimensione pubblica, in quanto tutti noi costruiamo o meno la nostra sfera intima. Relegare l’intimità ad un fatto privato significa ridurre al segreto ciò che maggiormente impegna e caratterizza la nostra esistenza, tutte quelle energie belle, rischiose e affascinanti che caratterizzano la nostra umanità. Non a caso i meccanismi di repressioni, le celle, gli antri bui, le carceri non venivano chiamati luoghi di intimità, ma segrete. Perché il segreto non affronta il problema ma lo mette da parte, portando alla ripetizione della sessualità come qualcosa di segreto e non di intimo, come qualcosa da mettere da parte e a parte qualcuno, ma non da condividere, perché la condivisione implica, al contrario, una fiducia. Così, se la fiducia riguarda la sfera dell’intimità, di ogni intimità di ogni persona al mondo, ecco che della sessualità si può parlare, può essere comunicata, in un certo modo.
Riportando, allora, la sfera della sessualità e del sesso ad una dimensione pubblica, secondo la riflessione di Domenico Marrone, possiamo contribuire a detabuizzare la vita sessuale dei presbiteri come elemento di credibilità della Chiesa cattolica dinanzi al mondo. In questo, tuttavia, sorge un problema fra la detabuizzazione della sessualità presbiterale e la sfera pubblica. Infatti, il primo scoglio da affrontare quando si parla della dimensione sessuale del presbitero è quella di assimilarla ad un morboso talk show in cui si vuole indagare se quel prete abbiamo mai baciato una ragazza, se quell’altro prete abbia mai avuto dei rapporti sessuali, se quell’altro prete ancora sia eterosessuale o quell’altro omosessuale. Tutto il dibattito pubblico sulla vita sessuale dei presbiteri sembra risolversi in un attaccamento morboso e clericale alla loro sottana, per scorgerne cosa ci sia sotto. Di conseguenza, detabuizzare significa quasi violentare l’intimità di un presbitero rientrando ancora in quel circuito morboso che aveva relegato la sessualità del prete al segreto. In altre parole, il tentativo di fare entrare la sfera dell’intimità nella condivisione pubblica rischia di ridursi alla morbosa scoperta delle attività sessuali del prete, concentrando il proprio piacere più sulla scoperta di informazioni e di notizie che sull’analisi del fenomeno. Si rischia insomma, di ritornare al gioco clericale, assimilando il presbitero alla cultura clericale, come terreno fertile per produrre e riprodurre la sessualità nel segreto. Scrive Marzano nel finale del suo libro:
“In altre parole, senza la cultura clericale non si spiega la docilità delle vittime, il fatto che queste si fidino ciecamente di un uomo ritenuto moralmente e spiritualmente superiore e ritengano impossibile immaginare che costui le condurrà verso l’abisso. Senza la disciplina celibataria e senza la consuetudine al silenzio e all’ipocrisia intorno a tutto quello che riguarda il sesso appresa nei tanti anni di seminario non sarebbe tanto diffusa nel clero quella profonda immaturità sessuale, quel ritardo nello sviluppo di una personalità adulta, che spiega molta parte del legame perverso, fatto di volontà di dominazione ma anche di autentico innaturale desiderio, che i preti stabiliscono con gli adolescenti. Senza la palestra di abusi rappresentata talvolta dal seminario vi sarebbe meno necessità di riprodurli al suo esterno. Senza l’invito a considerare il sesso esclusivamente come una dolorosa necessità vi sarebbero nei preti più capacità di riconoscere le emozioni proprie e degli altri, i bisogni affettivi propri e quelli degli altri. Senza l’incubo della segretezza, degli scandali, senza l’ossessione del sesso come mera e bestiale soddisfazione di pulsioni personali, senza la convinzione di avere ogni diritto e nessun dovere, di essere chiamati a rispondere solo ai superiori e mai ai più deboli e ai più fragili, diventerebbe più facile per i preti riconoscere che esiste anche il prossimo, che fare l’amore ha delle conseguenze psicologiche e affettive, per sé e per i propri partner, e non è solo “levarsi la voglia” il più in fretta possibile e senza farsi scoprire”.[2]
Detabuizzare la sessualità del prete, allora, significa in prima istanza affrontare non il problema del sesso in sé, quanto la larva clericale che pone i preti, per il solo fatto di aver ricevuto il sacramento dell’Ordine Sacro, al di sopra di tutti e di tutte, moralmente autoritari e in grado di dettare la volontà di Dio agli e sugli altri e altre. Il primo totem per la detabuizzazione della sessualità del prete è il clericalismo, inteso come investitura di superiorità e privilegi ad alcuni uomini rispetto a tutti gli altri fedeli. Un clericalismo che se da una parte pone il prete come superiore agli altri, dall’altra pone tutti gli altri clericalizzati in un posto di maggiore o minore potere a seconda delle simpatie del prete, a seconda dell’ingresso nell’intimità della vita del prete. Insomma, il clericalismo funziona come un’arma a doppio taglio sia per quanto riguarda chi ha potere sia per quanto riguarda coloro ai quali viene trasmesso quel potere, i quali sono coloro che vengono messi a parte, in segreto, appunto.
[1] M. Marzano, La casta dei casti. I preti, il sesso, l’amore, Bompiani, Milano 2021, cap. 12, versione epub.
[2] Ibidem, versione epub, cap. 15.