Lui stesso ha detto che non sapeva quello che diceva». Questa frase di Ignazio La Russa, pronunciata in difesa del ministro Lollobrigida per lo strafalcione sulla «sostituzione etnica», potrebbe essere apposta come epigrafe a buona parte del dibattito odierno sul 25 aprile e la festa della Liberazione. Con un’aggiunta evangelica: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Un precetto che tra l’altro assolverebbe anche lo stesso presidente del Senato; il quale, nello scusarsi per aver detto che a Via Rasella i partigiani nel 1944 attaccarono «una banda musicale di semi-pensionati», ha invocato la stessa esimente, confessando di non sapere se «quella notizia, più volte pubblicata e da me presa per buona», fosse in realtà errata. Un tempo neanche troppo lontano le polemiche su natura e sorti di fascismo e nazismo le facevano gli storici, e si citava George Mosse o Francois Furet, Eric Hobsbawm o Renzo De Felice, Emilio Gentile o Claudio Pavone.
Oggi gli accademici hanno lasciato il passo a meno studiosi militanti, che dilaniano la vicenda storica prendendosene ciascuno il suo brandello. Ma questo esercizio, man mano che si allontana la memoria degli eventi di circa ottant’anni fa e i suoi testimoni scompaiono, diventa paradossalmente anche più pericoloso: perché un Paese senza memoria è un Paese senza storia, come avvertiva già nel 1975 Pier Paolo Pasolini.
Così siamo di nuovo qui a chiederci sorpresi come mai la festa della Liberazione non sia ancora, come pure dovrebbe essere, un valore condiviso, patrimonio nazionale e comune. Ma la verità è che quella data è sempre stata «divisiva», spesso deliberatamente «divisiva». Si può anzi dire che ha fatto notizia solo quando ha diviso.
Nei tornanti storici in cui è stata sconfitta o ha rischiato l’emarginazione, per esempio, la sinistra l’ha usata di solito per «delegittimare» i nemici del momento. Così il De Gasperi che nel 1947 fa un governo senza i comunisti viene accusato di aver rotto l’unità antifascista della lotta di Liberazione; nel 1960 il governo Tambroni, che si fa votare la fiducia dal Msi, viene imputato di riaprire le porte al fascismo; e i gruppi extraparlamentari negli anni ’70 identificano nella Dc il «nuovo fascismo»; e le Brigate Rosse si propongono come la «nuova Resistenza»; e nel 1994 perfino Umberto Bossi si materializza alla manifestazione del 25 aprile promossa dal «manifesto» contro la vittoria elettorale del «Cavaliere nero», perché stava per portare al governo i post-fascisti di Fini; e nel 2006 la sindaca di Milano, Letizia Moratti, viene cacciata a furia di fischi e cori dal corteo, nonostante spingesse la sedia a rotelle del padre, deportato a Dachau e decorato con la medaglia della Resistenza; e la Brigata ebraica, che alla liberazione dell’Italia ha partecipato per davvero, viene fischiata ogni anno. Perché è «ebraica».
Il nodo storico inestricabile sta nel fatto che in quel 25 aprile del 1945 finirono contemporaneamente tre guerre: quella patriottica, quasi un secondo Risorgimento; quella di liberazione («e come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore»); e quella di classe, che sperava di edificare anche qui una società socialista.
La sinistra non le vinse tutt’e tre, e questo non è mai stato accettato da una sua parte influente in quanto irriducibile. Nacque così il mito della «rivoluzione tradita», e venne radicata nel senso comune l’equazione «antifascista=democratico». Che ormai, dopo la fine del comunismo, sappiamo non essere vera: non tutti gli antifascisti erano democratici, anche se tutti i democratici furono antifascisti.
Davvero dunque non può stupire che anche l’ultima grande sconfitta elettorale della sinistra abbia riacceso lo scontro sulla Liberazione. Però stavolta c’è dell’altro. E sta nel fatto che è appena andata al potere una destra che non mostra di avere alcuna voglia di rinunciare a quello stesso residuo identitario che i suoi nemici le imputano. Quasi come se la sua storica «estraneità» al fronte antifascista internazionale che vinse la guerra, e a quello interno che poi scrisse la Costituzione, le tornasse oggi persino utile a ristabilire una simmetria degli opposti: perché le consente a) di continuare a sentirsi sé stessa, nonostante i compromessi necessari per governare, b) di distrarre l’attenzione dalla difficoltà di governare.
Così è tutto uno svicolare, un cercare altrove e lontano, magari a Praga come nei programmi di La Russa, affiancando la visita anti-nazista al campo di concentramento con quella anti-comunista al monumento per Jan Palach, qualcosa che possa condividere. Oppure — come nella mozione del centrodestra al Senato — tentando di «affogare» il 25 aprile in un lago di date storiche «bipartisan», il 2 giugno della Repubblica e il 17 marzo del Regno d’Italia, il 27 gennaio della Shoah e il 10 gennaio delle foibe, il 18 aprile della vittoria elettorale sul comunismo italiano nel 1948 e il 9 novembre della caduta del Muro di Berlino nel 1989.
Naturalmente nessuno ha diritto di chiedere abiure alla destra. Certamente non dopo il giudizio degli elettori, che l’hanno giudicata e in maggioranza ritenuta legittimata al governo di un grande paese democratico europeo. E meno che mai può pretenderle in nome del 25 aprile chi ha capito così male la nostra Liberazione da non vedere il parallelo che la guerra per la liberazione dell’Ucraina ci ripropone oggi (su questo consiglio un breve corso di studio sui testi degli interventi di Sergio Mattarella).
Eppure, una sospensione delle ostilità sul passato, se così si vuol dire, gioverebbe innanzitutto alla destra di governo. Oggi è chiamata a nutrirsi di presente, e possibilmente di futuro. Due terzi degli italiani, e perfino più della metà degli elettori di Fratelli d’Italia, dichiarano nei sondaggi di considerarsi antifascisti. Il 25 aprile dividerà forse ancora a lungo chi vuole deliberatamente dividere, ma non più i cittadini.
Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.