Una parola ci insegue e ci persegue nella nostra vita, in modo particolare quando siamo adolescenti: che cosa voglio fare da grande? Se durante l’infanzia possiamo dire tante e tante cose, possiamo sbizzarrirci con la nostra fantasia, infine ci rendiamo conto che la domanda diviene sempre più concreta e, man mano che gli anni passano, sempre più pressante. E ciascuno di noi cerca di realizzarsi in questo senso, cerca di trovare la propria direzione o vocazione. Cerca di riconoscere cosa sa fare, chi vuole essere o come si immagina da grande. Tuttavia, nessuno di noi si chiede o a nessuno di noi viene posta una domanda antecedente al cosa voler fare da grande. Una domanda che suonerebbe, in un certo modo, così: perché mi devo chiedere cosa fare da grande? Chi sceglie questa domanda? È una domanda che proviene da dentro di me? È la società che me la impone? Uno dei più famosi sociologi della modernità, Zygmunt Bauman, nel suo libro Vita liquida, pone sotto analisi la domanda sul cosa voglio fare da grande, come fenomeno sociale. Bauman parla di una domanda che viene posta alle future generazioni attraverso un procedimento sociale di individualizzazione. Ciascuno di noi, insomma, è chiamato a diventare un individuo, a diventare qualcuno. Le varie espressioni ad esso collegate riguardano il potere nelle più svariate forme: politico, economico, sociale. Per dirla in altre parole, è come se tutti noi, fin dalla nascita, fossimo dentro una gara, per cui arriva prima chi trova una posizione rilevante e di potere nella propria vita, chi si individualizza prima. Dove l’individualità non ha nulla a che vedere con l’unicità delle singole persone, ma con un processo sociale più simile al meccanismo e allo “spirito” della folla. Infatti, individualizzarsi significa, tutto sommato, giungere a dei posti di individualità, a dei posti di potere che sono riconosciuti e riconoscibili dalla folla, assimilando il potere al benessere personale. Più potere mi porta più benessere. Esempio classico sono i Paesi più industrializzati come la Groenlandia, la Finlandia e la Norvegia, con un reddito procapite molto alto e un sempre più alto numero di suicidi. Un processo di individualizzazione di cui risentono, in maniera più o meno diretta, anche le nostre città. Siamo in un’epoca, che si ritrova la vivere in città dove per emergere devi, a tutti i costi, essere qualcuno, dove vige la meritocrazia, con tutte le possibili e plausibili scorciatoie. Tutti abbiamo bisogno di essere qualcuno, di raggiungere posti di prestigio, di costruire anche la città attraverso un dominio individuale sulle situazioni, sulle progettualità locali, sulle questioni politiche. I risvolti di tutto questo sono la mancanza di comunità all’interno delle città, la scarsa partecipazione ad aventi comunitari, oltre i residui di ritualità che permangono ancora da qualche parte. Città individuali, costruite per individui che vivono da soli, che apprezzano maggiormente la casa alla piazza, la strada carrabile al marciapiede, le prestazioni all’impegno civico, il privato al pubblico. Dinanzi a questo connubio fra individuo e città, per cui siamo individui nella misura in cui siamo riconosciuti dagli altri per mezzo di parametri convenzionali che gli altri recepiscono come importanti, rimane ancora aperta la domanda: perché devo essere qualcuno?
Matteo Losapio, presbitero, redattore CuF, Bisceglie, Bari.